In Kafka sulla spiaggia, romanzo di Haruki Murakami uscito in Giappone nel 2002, il protagonista di una delle due narrazioni principali un giorno si imbatte in Johnnie Walker, un curioso personaggio che rapisce i gatti per ucciderli e rubare la loro anima. Leggenda vuole che Murakami si sia ispirato per questo suo personaggio ad una persona vera, Joni Waka, un ebreo che da moltissimi anni vive a Tokyo, ma forse potrebbe essere anche il contrario e cioè che quest’ultimo si sia ispirato al romanzo dello scrittore giapponese per alimentare l’aura della sua fama.

The Strangest Stranger è un documentario ibrido, una sorta di docufiction, che cerca di approfondire, ingarbugliando i fili che la compongono, la figura quasi mitica che nell’underground nipponico è oramai diventato di Joni Waka. L’artista svedese Magnus Bärtås è il regista di un film che in poco più di un’ora ci offre una caleidoscopica e molto parziale rappresentazione di Waka, uomo che ha conosciuto più di vent’anni fa e che gli permette d mettere in scena tutte le derive dell’identità come finzione. Il mito vuole che Joni Waka sia un sessantenne ebreo sefardita ed omosessuale, l’ultimo discendente delle famiglie ebree che si stabilirono nell’arcipelago più di trecento anni fa, cresciuto in Manchuria e poi trasferitosi in India prima di approdare nell’arcipelago.

The Strangest Stranger segue Joni Waka per le strade di Tokyo durante le sue passeggiate e nei vari vernissage dove viene riconosciuto da tutti, la sua professione, se ce n’è una, è quella di promotore e produttore artistico. Nelle prime scene del film lo vediamo accompagnato dal suo enorme cane, animale che è il simbolo della sua smisurata personalità, avvicinarsi ai passanti e presentarsi per dar sfoggia di sè e della sua diversità, l’uomo ha nazionalità giapponese ma parla correntemente, così dice, otto lingue.

Il cane ha – come il documentario spiega più avanti – un significato importante per Waka, o Walker come si fa chiamare in riferimento al romanzo di Murakami, infatti questi animali metterebbero in contatto i propri padroni con un diverso piano di realtà. Nel suo peregrinare per le strade della metropoli l’animale è una scusa per attaccar bottone e dar sfogo alla sua mitomania, tutte le parole, i gesti e ciò che sgorga dalla bocca dell’uomo sono infatti una sorta di performance con il quale mescola finzione, memoria, ricordi e fantasia.

Sebbene molte delle problematiche sollevate qui e là quasi en passant da Waka siano di interesse, il razzismo educato ed edulcorato dei giapponesi, soprattutto quello nei confronti dei coreani di seconda o terza generazione ad esempio, l’affettazione quasi elitaria con cui si presenta rende il tutto molto poco effettivo. La parte forse più interessante del film è quella centrale, quella che da il là alle vicende che portano al finale e cioè quando il nostro Joni Waka conosce durante un avventuroso viaggio in Africa un ragazzo senegalese di sangue Masai e se ne innamora.

Il documentario ci mostra la visita del giovane a Tokyo che culmina con il matrimonio fra i due, celebrato in un santuario shintoista a Shibuya, Waka con un vestito tradizionale ebreo, il suo compagno in veste Masai, i due testimoni, uno scozzese ed un’indiana, un uomo-agnello ed un danzatore butoh. In questo eccesso visivo c’è tutto il personaggio Joni Waka, una performance e una intricata commistione delle più disparate tradizioni, messe in scena come se fossero un pezzo d’arte contemporanea, florilegio visivo e al contempo «vuoto» performativo del gesto.

matteo.boscarol@ilmanifesto.it