Nato sotto Saturno, della famiglia dei lunatici, Johan Barthold Jongkind scoprì il Delfinato – insieme a colei cui si era votato, e che si era incaricata di salvarlo, Joséphine Fesser – nel 1873: cinque anni dopo vi si sarebbe stabilito, a La Côte-Saint-André, borgo celebre per aver dato i natali a Berlioz, in un’ala della proprietà di campagna del genero Jules Fesser. Nel Delfinato il nervoso paesaggista rimase fino alla morte nel manicomio di Saint-Égréve: 1891, aveva settantadue anni; ed è il Delfinato che si incarica oggi di celebrarlo (fino al 30 settembre) in occasione del bicentenario, con una mostra, contenuta ma preziosa, al Musée Hébert a La Tronche, frazione di Grenoble. La cura è della direttrice del museo Laurence Nesme.
La critica più avvertita, quella dei conoscitori, già da tempo ha sottratto Jongkind ai vincoli di una funzione – precedente cardine dell’impressionismo, per Monet «mio vero maestro» – che ha finito per adombrare la sua screziata originalità e sviare lo stesso giudizio di qualità. A contatto con un’opera di Jongkind, più che mai ogni artista è un universo. Per rendersene conto sono più utili, forse, i resoconti della letteratura a lui coeva, quando l’impressionismo era ancora una realtà eventuale, o in svolgimento: Philippe Burty, nel 1861, annota intelligentemente l’«armonia singolare» assunta dai suoi quadri dopo che «qualche anno o anche qualche mese» sia passato su di essi, che avevano dato la sensazione di «incompiuto» al momento di essere licenziati dal cavalletto; lo stesso Burty spende il nome di Bonington, artista-chiave nella gestazione di marca atmosferica del paesaggio moderno, circa il modo che ha Jongkind di «abbozzare» i cieli.
Gli ‘antichi’ di Jongkind, nato olandese a Lattrop nel 1819, sono i Ruysdael, i van de Velde, i van Goyen: ma la libertà e ‘sconfinatezza’ di sguardo del paesaggismo olandese del Seicento egli le scopre soltanto una volta giunto in Francia (1845), dove viene via via a contatto con le novità naturalistiche emerse in seno al romanticismo, nella transizione verso la Scuola di Barbizon. Suo mèntore Eugène Isabey, di cui frequenta, come allievo, l’atelier parigino: è proprio Isabey a mediare per lui la lezione di Bonington.
Di fronte a questi modelli e suggestioni, la risposta di Jongkind è complessa, perché da una parte ne trae aspetti adatti all’azzardo sperimentale, alla liberazione elettrica del segno, in cui brucia ogni residuo romantico; dall’altra li utilizza per rendere più vividi certi aspetti letterari e «di genere» della sua prima formazione, all’Aja, con Andreas Schelfhout, maestro nella tradizione sublime (neve e bagliori) di van der Neer: è il caso dei chiari di luna, che stupivano Burty per il genio di Jongkind nel servirsi «di tutte le sfumature del nero». C’è dunque un Jongkind «progressivo», da cui prende l’avvio il giovane Monet (si conobbero in Normandia, a Honfleur, nel 1862; subito Monet gli presentò l’altro suo ‘maestro’ Eugène Boudin), e un Jongkind che non rinuncia ad alonare il mondo visibile di significati altri, a intriderlo di sogno con un occhio allucinato che fa pensare a van Gogh.
«Alto, secco, ossuto, goffo come un marinaio in terraferma, tormentato da una strana mania di persecuzione»: le sofferenze di Jongkind, così ben fisionomizzate da John Rewald, sono sicuramente responsabili, insieme al sempre più frequente automatismo nelle richieste di mercato (che insistevano su una specialità, la «marina», troppo vincolante), di una certa discontinuità qualititativa nel catalogo dell’artista. Boudin, altro marinista, e spiaggista, non raggiunge mai le vette di Jongkind, ma, più posato, più sereno, tiene sempre il livello.
In un saggio scritto per il catalogo della mostra di Jongkind del 2004, Jacques Foucart affermava che la novità del pittore va cercata non nelle marine ma nelle prove parigine anni sessanta, dove i soggetti urbani, spesso cavati dall’anonimato della banlieue o dal caos delle distruzioni haussmanniane, danno modo alla sua proverbiale prontezza ottica di sperimentarsi senza riserve: la vie moderne offre più realtà del mare e delle vele. Questo Jongkind della marginalità urbana, in cui si avverte, anche nel gusto dei muri scrostati e delle scritte pubblicitarie, qualche nota di anticipo su Utrillo, ricevette non per caso il plauso di Zola in un esaltato resoconto della visita all’atelier parigino dell’artista («La Cloche», 24 gennaio 1872): «Non un maestro dal portamento superbo e colossale, ma un maestro intimo che penetra con rara agilità nella vita multipla delle cose».
Nondimeno, anche confrontandosi, prima e dopo il suo ritorno in Olanda (1856-’59), con la Parigi dei monumenti, e dei quais e dei ponti della Senna, che gli suggeriscono un impianto di veduta più tradizionale, Jongkind mostra di sapere scrutinare al meglio i valori e si appoggia infatti sulla lezione di Corot, il raro Corot parigino 1820-’30, attraverso il quale scopre un’alternativa alla lignée romantica che fa capo al suo maestro Isabey. In mostra a Grenoble alcuni capolavori di questo genere dicono a tutte lettere come risulti parziale la lettura pre-impressionista di Jongkind: con Le Pont de l’Estacade (1853), proveniente dal museo di Angers, si assiste a una resurrezione di Canaletto e, più, di Bellotto, ma passati attraverso la lezione di Corot e anche – nelle figure dei pescatori in primo piano scavate dall’ombra – di Daumier; Notre-Dame de Paris au clair de lune (1854), del museo di Reims, ha una condotta decisamente più sprezzata: fra i fuochi notturni balenanti, schiacciato dall’imponenza nera della cattedrale, sembra aggirarsi quell’altro pazzo della Parigi capitale del XIX secolo che risponde al nome di Charles Meryon, le cui diaboliche lastre datano nello stesso torno di tempo.
Cade bene, qui, la pagina di diario di Edmond de Goncourt di giovedì 4 maggio 1871: recente vedovo del fratello, egli si aggira, insieme a Burty, fra le macerie spettrali della Comune e dell’Assedio; decidono di andare a trovare, «per sperduti quartieri», Jongkind, che Edmond, pur essendo stato «uno dei primi ad apprezzarlo», non ha mai conosciuto di persona. Dopo una lunga e verbosa seduta, che lo ha stancato, la lingua del pittore «s’ingarbuglia, il suo olandese, le sue parole diventano strane, incoerenti». Agenti di Luigi XVIII, dice, lo perseguitano, e «scatta su come una molla: “Vedete, un’elettricità è appena passata, là, accanto a me”. E imita il fischio di una pallottola»…
Il metodo di Jongkind non prevede l’«aria aperta»: secondo la regola classica, egli schizza il motivo, per poi elaborarlo in atelier. Solo gli acquerelli, per i quali va celebre, sono realizzati sur nature. Nella sua monografia del 1931, Paul Colin vide una vera e propria dicotomia fra questi due generi di produzione, e sostenne, arbitrariamente, che nelle tele l’artista mostra troppa compiacenza verso gli amatori e che senza la pittura ad acqua il suo nome sarebbe caduto nell’oblio. Perfetta, però, la definizione che dà del Jongkind acquarellista: «La machine à percevoir». Soprattutto nella seconda parte della mostra, dedicata al periodo finale trascorso nel Delfinato (la prima riguarda la carriera parigina), si può apprezzare la libertà esecutiva degli acquerelli, ormai suo esclusivo interesse, del tutto svincolato da ragioni commerciali. A ispirarlo non sono solo i dintorni di La Côte-Saint-André, la trasparente piana di Bievre dominata in lontananza dai massicci alpini, ma anche i paesaggi del Midi, dove si reca a diverse riprese insieme all’immancabile crocerossina Joséphine, che gli dosa vino e liquori forti.
L’acquarello-tipo di Jongkind prevede una traccia grafica sottostante, con un effetto, a volte, di strana secchezza, in anticipo su Segonzac. Il colore, vivo, si dispone su questa traccia. Non mancano prove più liquide, ma l’unicità è data dal singolare compenetrarsi di disegno e colore. Spontaneità? Fino a un certo punto. In realtà un acquarello di Jongkind non si mostra in tutta immediatezza, bisogna fare lo sforzo di entrarci e solo allora risulterà… spontaneo. Un aiuto a comprendere, seppure a contrario, viene dal corpus minimo delle acqueforti, a cui lo stesso artista non dava alcun credito, ma che risultano, come vide Baudelaire, «itinerari fantastici» di marca rembrandtiana, all’insegna dello scarabocchio. Claude Roger-Marx ha approfondito il problema: la mano di Jongkind sembra tremare, esitare, ma il risultato finisce per obbedire, misteriosamente, a un ordine imperioso, in cui si sostanzia «una visione singolarmente acuta». Il grafismo ‘a viticcio’, ‘a dente di sega’, è lo stesso su cui si sono sfasciati la testa i filologi di Rembrandt: una specie di scrittura automatica, una distrazione penetrante.