Ben più di trenta pagine fitte di bibliografia concorrono a suffragare le tesi sulle cause, le conseguenze e i possibili rimedi del cambiamento climatico esposte da Jonathan Safran Foer nel suo ultimo lavoro, Possiamo salvare il mondo, prima di cena (Guanda, traduzione di Irene Abigail Piccinini, pp. 312, e 18,00), deponendo senza dubbio a favore della validità scientifica degli argomenti usati dallo scrittore statunitense per metterci in guardia dall’imminente catastrofe cui va incontro il nostro pianeta e suggerendo rimedi per scongiurarla (o meglio, visto che essa è già in atto, per limitarne i danni). A ulteriore riprova della scientificità del testo, ogni singola affermazione è giustificata, per complessive diciassette pagine di note in appendice.

Chi conosce Safran Foer (che da Mantova si sposterà stasera al Palazzo dei Congressi di Ravenna e domani pomeriggio a Milano all’Anteo Palazzo del Cinema), leggendo questo corposo saggio avrà l’impressione di trovarsi di fronte a un approfondimento di Se niente importa, il suo lavoro di non fiction del 2009 dedicato agli orrori dell’allevamento intensivo e alla conseguente sollecitazione, sulla base di dati raccolti in tre anni di ricerche, ad abbracciare il vegetarianesimo. Non a caso, in Possiamo salvare il mondo, indicando negli allevamenti intensivi la causa primaria delle emissioni responsabili del riscaldamento globale, Foer propone la rinuncia a tutti i cibi di origine animale (almeno ogni giorno prima di cena) come risoluzione da adottare collettivamente per evitare le conseguenze irrecuperabili della crisi del pianeta.

Partendo dal dato di fatto – più volte ribadito nel corso del libro – che viviamo questa crisi «come una guerra in corso laggiù» e perciò la nostra immaginazione fatica a venirne a capo, per sollecitare il lettore a introdurre «forse in una decina d’anni i cambiamenti che non abbiamo ancora trovato il modo di discutere seriamente, con gli altri e con noi stessi», Foer usa una strategia illustrata nella sezione del testo intitolata «Disputa con l’anima»: «concentrarmi al massimo sulle mie reazioni personali, anziché emulare lo stile giornalistico degli articoli e dei libri che stavo leggendo per le ricerche, i quali immancabilmente – a prescindere da quanto fossero seri, stringenti e ben scritti – non mi spingevano a fare proprio niente (…) rinunciare alla completezza, e perfino a un certo grado di professionalità, in cambio di una forma che mi motivasse».

È difficile prevedere se la strategia scelta da Foer mettendo insieme un compendio di dati scientifici, osservazioni personali, esempi di azioni collettive di successo tratti dalla storia e dalla cronaca, oltre a inserti narrativi sulle vicende della sua famiglia durante e dopo l’Olocausto – riesca a convincere il lettore ad abbracciare una dieta priva di carne, uova e latticini; del resto, lo scrittore è il primo ad ammettere di aver ceduto alla tentazione di un hamburger anche durante la stesura di Se niente importa.
Convincono invece del non comune talento di Jonathan Safran Foer, le toccanti pagine sulle tribolazioni del nonno durante la seconda guerra mondiale, il suo suicidio in tempo di pace, e la morte dell’anziana nonna (quella dal cui rifiuto di mangiare carne di maiale prendeva il titolo la versione italiana del saggio precedente): a fronte di alcuni inserti ideologicamente didascalici, questi sono momenti di grazia narrativa che rimandano alle pagine più drammatiche di Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino, ravvivandole di intense sfumature autobiografiche.