Pubblicato in islandese nel 2003, quando Jón Kalman Stefánsson aveva da poco abbandonato il suo impiego di direttore della biblioteca comunale di Mosfellsbær per dedicarsi alla scrittura a tempo pieno, Crepitìo di stelle (traduzione di Silvia Cosimini, Iperborea, pp. 256, € 17,00) è la prima tra le opere di Jón Kalman presentate finora nel nostro paese: il suo incipit disorienta e stupisce, perché presenta – spezzata in quadri isolati e divagazioni continue, e divisa in brevi capitoli dai titoli ellittici – una realtà dissolta in frammenti, che proiettano in una narrazione al presente esperienze e immagini cesellate nei minimi particolari.

Echi novecenteschi
Vi si avvertono esperienze novecentesche, tra nouveau roman e tradizione recente del romanzo nordico – da Henrik Stangerup a Per Olov Enquist – in cui individuo, storia e realtà entrano in una relazione oggettiva, formando un’epica del dettaglio, che si alterna a momenti di soggettivismo esasperato.

Nell’avvicendarsi dei toni e delle prospettive è come se l’autore volesse trasformare in racconto la percezione di una realtà in cui l’io e il mondo si scambiano continuamente di posto, e la realtà che ne risulta finisse per ridursi al segno lasciato dalle mani, e dalla mente in un mondo privo di trascendenza. Nell’orizzonte compreso tra la prospettiva dell’io narrante da bambino e quella da adulto, si incrociano parabole eccentriche, storie bizzarre che risalgono il tempo e le generazioni. «Sette vite, centocinquant’anni», scrive Jón Kalman.

Fra queste, la figura del bisononno, con la sua ottocentesca sete di viaggi e di avventure, che si andrà a imbrigliare nell’ordinario lavoro di impiegato in un’agenzia immobiliare, per poi tornare a progetti impossibili, fra sbronze colossali, e un amore travolgente per la bisnonna, che ha meno della metà dei suoi anni. E, ancora, un nonno evanescente, ma capace di grandi gesti improvvisi, e una nonna che «mescola l’islandese al norvegese per parlare in una lingua tutta sua». E, finalmente, il protagonista, che ripercorre la propria vita per spiegarne le fragilità e le incertezze, la malattia raccontata in una serie di brevi capitoli dalla prosa all’improvviso lirica e visionaria. Fra le figure della sua vita, quella della matrigna ostile o forse solo perturbatrice di un ordine che il tempo svela come manifestazione sensibile di forze entropiche, insinuate nell’illusione puerile di stabilità e sicurezza. In lei, enigmatica, «più spaventosa del tizio irascibile del terzo piano, più potente delle imprecazioni del vecchio del quarto piano, più misteriosa della moglie di Söbekk che non scende mai dalla Range Rover ed è solo un’ombra dietro i finestrini oscurati», si raccolgono tenebre di incomunicabilità e sofferenza.

Memorie di destini
A esse, tuttavia, si oppone la memoria di destini che s’intrecciano a formare una rete di esperienze e di affetti in cui a ogni perdita corrisponde un ritrovamento, e dove le vite isolate di ciascuno dei personaggi – di ciascuno di noi – entrano in relazione con un tutto più grande, che dilata l’io e si fa al tempo stesso famiglia, comunità, mondo. Alla trama di questa rete le storie narrate restano appese e si collegano alle altre, indicandoci nella solidarietà e nella condivisione un senso un po’ meno effimero, dove gli «schizzi di attimi vissuti sulla superficie della terra», come scrive Jón Kalman verso la fine del suo romanzo, finiscono per costituirsi non solo in una coinvolgente prova narrativa ma in un disegno di intenti.