Nella sua prima silloge, del 1977, Sciarra amara, Jolanda Insana, messinese ma romana di adozione (si trasferisce nella capitale nel 1968 e vi muore nel 2016), ferma sulla carta una delle sue espressioni più note. Non è un caso che il volume ora dedicatole da Gianfranco Ferraro e Giuseppe Lo Castro si intitoli proprio così, Pupara sono (Falco editore, pp. 368, euro 15), perché interna a quella affermazione si trova la sua anima siciliana lussureggiante e un’ineguagliabile ironia caustica sull’umana sorte.

PROSEGUENDO lungo quel frammento, è la stessa Insana che indaga l’oscillazione intorno cui larga parte della sua architettura poetica si è retta negli anni: e faccio teatrino con due soli pupi / lei e lei / lei si chiama vita / e lei si chiama morte. Dichiarazione di intenti che schiude l’ambivalenza perenne in cui vivono numerose coppie di contrari di cui vita e morte assumono il maggiore rilievo. Inizio e fine, nascita e deperimento agiscono antinomiche nel procedere del tempo, freccia esatta che si conficca dentro ciascuna e ciascuno di noi. Dentro la carne, perché osservare il precipizio definitivo non significa diventare più saggi bensì impiastrarsi mani e piedi di responsabilità materiche con precisi olezzi.

Autrice di straordinarie raccolte in cui al lavorio della lingua risponde, per parità di scavo, quello sull’etimo di ciascuna parola, Jolanda Insana è stata influenzata dalla eredità dei grandi classici, latini e greci, che ha tradotto con sapienza. Disincanto e solennità restituiti attentamente anche nel volume che le rende omaggio in cui, insieme ad alcuni saggi critici firmati dagli stessi curatori si possono leggere anche quelli di Guido Boffi, Giovanna Ioli, Paulina Malicka e Pietro Frassica, con l’aggiunta preziosa di tre interviste alla poeta condotte da Giancarlo Alfano, Anna Mallamo e infine da Patrizia Danzé. Parte del materiale è poi composto da brevi inediti che rappresentano perlopiù la corrispondenza intrattenuta con alcuni degli autori della collettanea.

RITMO E RICERCA ribadite in ogni singola immagine, siano pure i titoli delle sue raccolte più conosciute: da Fendenti fonici a L’occhio dormiente, da La stortura a La tagliola del disamore e l’ultimo, edito postumo, Cronologia delle lesioni, assistiamo ai punti di approdo e conseguenti viaggi verso luoghi letterari e poetici di inusitata potenza. Eppure tutti radicati nella realtà. Basterebbe pensare a ciò che scrive sul disamore, in una breve quanto affilata prosa del 2005 (pubblicata sulla rivista Il caffè illustrato e ora contenuta nel volume Garzanti di Tutte le poesie dal 1977 fino al 2006). In poche battute inchioda l’anatomia politica e passionale del Novecento nei suoi elementi più scomodi: una mortifera persistenza, esito ultimo di ciò che è opposto all’amore. Disamore è mancanza di attenzione, di interesse, aridità intellettuale e del cuore scambiate per pensosità, incapacità di accogliere l’altro ma anzi caldeggiarne la scomparsa. Come fosse una cosa da niente, lasciarlo affamato, dell’amore ma soprattutto del piacere di cui si tende a contraffarne il gusto. Si utilizza il prossimo come un cibo guasto per riservargli le singolari deiezioni di cui si dispone. È questo il più fedele fotogramma del narcisismo spinto che aleggia in un certo coté intellettuale da cui Jolanda Insana si è sempre tenuta distante ma che, allargando la vista, nomina una modalità di relazione con gli altri, viventi umani e non.

TUTTI ELEMENTI con un tenore storico preciso, quello per esempio della carezza a stragisti e mostri e il compiacimento di collette e ribassi da «madamini di san vincenzo», distruggendo la terra in cui abitiamo e promettendo tuttavia la conquista di Marte. Servono altri mondi da propagandare quando dell’unico praticabile ne abbiamo fatto scempio.
Di questo labirinto della sordità egotica, che non ha niente di patologico ma tutto di pigramente stolido e sdoganato, Jolanda Insana ha descritto con minuzia ogni particolare, partendo dalla resistenza alla ingiustizia, cospiratrice nel ritorno delle Erinni. Se non c’è di che stare allegri dinanzi a questo contemporaneo disastroso a cui affidarsi, nella sua trama di miseria che ci ha condotti dove siamo adesso – ovvero alla legge dei bulli e dei bestioni che salutano i governi di mezzo mondo – rileggere ciò che è stata capace di comporre è almeno un momentaneo farmaco contro l’esaltazione del patetismo e della consolazione. Di un insulso e liberista autoperdono che si celebra, tra gli altri luoghi di inutile e reiterate bellicosità, fino ai salotti per bene in cui si discetta di metaletterario – per non dire della propria incapacità di relazione con il resto del mondo.

INSANA ALLORA, come tutte le creature di imperdonabile selvatichezza, ha scelto come unico suo nascondiglio la poesia declinata nella afasia iconoclasta, rispondendo con insorgenza taumaturgica, sia nel martorio di sé che nello sguardo impietoso sulle altre donne. È a queste ultime che vengono dedicate alcune tra le poesie più indigeribili e preziose: ci sono specchi, bende, corpi irregolari, invettive e sorellette rivoltose insieme a moltissimi sapori, talvolta non gradevoli. Difficile dire quanto manchi la voce di Jolanda Insana e quanto andrebbe letta, studiata, riletta con stordita pazienza. Per poi ricominciare daccapo. Pupara sono, di Gianfranco Ferraro e Giuseppe Lo Castro, è in questo senso pegno di antica riconoscenza che si deve alle emersioni sapienziali.