Dopo l’imbarazzato balbettio davanti alla liquefazione occidentale in Afghanistan, per il parlamento britannico è venuto il momento dell’indignazione bipartisan. Tanto che la sessione parlamentare straordinaria di ieri per dibattere lo sfascio afghano in cui Boris Johnson ha toccato momenti altissimi di alpinismo sugli specchi era anche la prima senza distanziamento sociale da quasi un anno e mezzo.

Nemmeno per un meticoloso mentitore come Johnson – che, al pari del ministro degli Esteri Dominic Raab, proprio mentre i Taliban irrompevano indisturbati nel paese si trovava in vacanza (il primo nell’autarchico Somerset, il secondo nella nazional-popolare Grecia) – sarebbe stato facile sostenere che la Gran Bretagna era riuscita nella propria missione: eppure, mentre le domande scomode da ogni angolo dell’aula lo colpivano come una sassaiola, “Boris” ne è stato capace (nello specifico, la missione era cacciare Al Qaeda dal paese, si è affrettato a precisare nelle oltre otto ore di dibattito).

«Gli eventi in Afghanistan si sono come srotolati e il crollo è stato più rapido di quanto non avessero previsto i Taliban stessi… non è vero quello che si afferma, e cioè che il governo britannico non fosse preparato o non avesse previsto tutto questo: era di certo parte dei nostri piani», ha poi aggiunto Johnson, superandosi.

E cercando di schivare le salve dai deputati conservatori a destra del governo, che ora deprecano lo sfascio e l’impreparazione nel raccogliere intelligence dell’imminente disfacimento, i venti anni di campagna militare e i 457 soldati britannici caduti, la pioggia di miliardi spesa.

Tra questi spiccava una particolarmente puntigliosa Theresa May, che si è scagliata contro il «notevole insuccesso» della politica estera nazionale non senza un immancabile affondo sulla campagna elettorale pro-Leave che avrebbe poi significato il Regno unito fuori dell’Europa (e Johnson al posto suo a Downing Street): «Ci vantiamo tanto di essere una global Britain: ma dov’è questa global Britain nelle strade di Kabul?».

Infine, a rincarare la dose ci avrebbero pensato i vari reduci militari che popolano gli scranni dei Tories, che hanno dato voce all’immancabile tormento nel pensare alle migliaia di afghani, tra collaboratori e collaborazionisti, «traditi e abbandonati» a un destino probabilmente orrendo, ma in realtà dolendosi ancor di più per i tagli alla difesa che hanno ridotto di molto la coperta militare con cui il paese si ostina ancora a ricoprire mezzo mondo.

Seguiti a ruota dal leader laburista Starmer, le cui critiche erano doverosamente indistinguibili dalle loro (il ritiro delle truppe è stato imperdonabile, tutto quello che abbiamo ottenuto in questi venti anni è minacciato, eccetera), a parte forse la scontata, opportunistica quanto prevedibile critica al ministro degli Esteri Raab per essersi trovato beatamente in vacanza: «Non si può coordinare una risposta internazionale dalla spiaggia», ha tuonato Starmer.

Mentre il deputato conservatore Tobias Ellwood, pure lui ex-militare, chiedeva l’istituzione di una commissione d’inchiesta sul crollo del presidente Ghani aggiungendo, in modo sospettosamente puntuale: «Stiamo restituendo il paese agli stessi insorti che avremmo dovuto sconfiggere».

Intanto la ministra dell’Interno Patel ha varato un programma di accoglienza a lungo termine per 20mila profughi afghani: i primi 5mila saranno persone in fuga dai Taliban con priorità a donne, bambini e appartenenti a minoranze religiose.