Dopo la quinta votazione alle loro cosiddette primarie, i Tories hanno (quasi) finito di giocare ai seggi musicali. Il vincitore ultimo si siederà su quello di leader del partito e del paese. A contendere a Boris de Pfeffel Johnson (160 voti) le preferenze degli iscritti in una votazione il cui spoglio avverrà il prossimo 22 luglio, sarà l’attuale inquilino del Foreign Office Jeremy Hunt che, con 77 voti, ha superato di un sopracciglio il rivale Michael Gove, il ministro dell’Ambiente, fermatosi a 75.

È dunque tutta in discesa la strada per Johnson, ora che il suo ex amico Gove è fuori gioco e può aspettarsi al massimo un incarico di media gittata. Le ultime ore sono state il solito mercimonio tra deputati-elettori, affaccendati in ogni sorta di magheggi per ottenere incarichi nella futura compagine dal supremo trionfatore che ormai – sempre che Elisabetta II non abdichi facendo outing come repubblicana – sarà il succitato de Pfeffel.

IL FUOCO DI PAGLIA di Rory Stewart, il candidato outsider improvvisamente fattosi tardivo pusher di realismo presso un elettorato Tory che da tre anni aspetta al solito posto la sua dose quotidiana di Brexit-a–ogni-costo, era già stato puntualmente estinto, e con spietatezza, mercoledì. Stewart è stato eliminato dopo che dieci deputati che avevano votato per lui nelle tornate precedenti l’hanno mollato, a sostegno delle illazioni che li volevano sostenitori di Johnson intenti a gonfiare artificialmente le preferenze di Stewart pur di garantire l’eliminazione di Dominic Raab di martedì, l’unico altro ultrà del no-deal come Johnson che potesse impensierirlo. Del resto questo non è il partito laburista, che commette lo sbaglio di mettere il timone nelle mani di un idealista che lo riformi, (sebbene poi si disintegri nel tentativo supremamente idiota di toglierglielo anche dopo che questo ha minacciato di poter vincere): nella corsa spietata al vertice Tory non si prendono prigionieri.

Allo stesso modo, la distanza ravvicinata fra Hunt e Gove fa pensare che i voti di Sajid Javid, ministro dell’Interno penultimo eliminato ieri prima di Gove, siano stati fatti confluire a sostegno di Hunt proprio per danneggiare Gove, con il quale Boris ha la zanna avvelenata per via di una certa faccenduola del 2016 (Gove sabotò la candidatura di Johnson subito dopo aver passato mesi assieme come volti della campagna per il leave). Meglio avere accanto in qualche alto incarico l’innocuo Hunt, piuttosto che lo sdrucciolevole Gove. Una coesistenza pacifica di cui Johnson ha molto bisogno: la sua si preannuncia come una premiership ancora forse più breve di quella di Theresa May.

Sì perché le elezioni anticipate, sulla carta aborrite dai Tories, in realtà stanno diventando un’opzione per loro sempre meno remota. Non c’è modo che Johnson riesca con le battute da guascone dove May ha fallito con la più tenace negoziazione. Per il partito è meglio fare l’ultimo azzardo piuttosto che morire lentamente dissanguato dal brutto karma di una Brexit da loro promessa, ottenuta e finora mai realizzata. La “tattica” di Johnson è quella consigliatagli dal prenditore Donald Trump: ricattare la controparte minacciando di far saltare il tavolo per ottenere un accordo. Che però non è negoziabile e ha per scadenza il 31ottobre.

JOHNSON BLATERA DA MESI di no-deal e sta vincendo per questo. Ma in parlamento non riuscirebbe a farlo passare: già alcuni Tories eurofili di alto bordo come Ken Clarke, Amber Rudd – che sostiene Hunt – e Dominic Grieve hanno annunciato che farebbero cadere il governo. Si ricadrebbe in bocca alle seconde elezioni anticipate in meno di tre anni, roba ignota in queste isole. E qui si vede cos’ha Johnson agli occhi del suo partito che gli altri candidati non avevano. Nessuno saprebbe rinegoziare il deal togliendo il backstop al confine irlandese, né lui né loro; ma in caso di elezioni anticipate, con la mentalità di grande nazione assediata che ormai dilaga ovunque, e soprattutto con l’appoggio di Farage – che ha abbondantemente confermato la sua disponibilità a sostenere un governo di minoranza Johnson – costui potrebbe effettivamente vincerle. Non certo Jeremy Hunt, che non crede ancora di essere arrivato così in alto e si accontenterebbe verosimilmente di mantenere il suo ministero.