Poche manciate di ore separano dalle politiche, si vota giovedì. Saranno le prime elezioni invernali da un bel pezzo con soli tre precedenti finora, il 1919, il 1918 e il 1923. Sono passate quasi sei settimane esatte dall’ultimo tappo parlamentare che ha imbottigliato il negoziato Brexit del premier Boris Johnson e il conseguente scioglimento – meglio definirla liquefazione – del parlamento, lo scorso 6 novembre. Ma l’insensatezza con cui ormai da anni si susseguono scadenze definite “storiche” ha messo la sordina alle fanfare per consegnare il paese a un eterno presente in cui si corre sul posto verso l’ologramma Brexit. Fin quando non ci si sbatterà violentemente contro per saggiarne, alfine, l’inaspettata durezza.

I DUE CONTENDENTI sparano le ultime cartucce elettorali. Il ministro ombra delle finanze e numero due del partito John McDonnell ha annunciato che il Labour al governo finirebbe l’austerità nei primi cento giorni sfornando una finanziaria palingenetica entro il 5 febbraio. Johnson e Corbyn sono a caccia di preferenze nei cosiddetti collegi marginali, quelli mai decisi da una netta maggioranza per un partito. L’affaire Brexit spariglia le carte e offre l’alternativa del voto tattico, versione uninominale del tristo voto utile: votare qualcuno che non ti piace per impedire che vinca qualcuno che ti fa schifo. Sarà la stanchezza, ma in queste ultime battute il trucco da clown bonario di Johnson sbava in diretta: ieri un reporter gli ha mostrato il proprio telefono con la foto di un bimbo malato costretto ad aspettare ore per terra nell’ospedale di Leeds per mancanza di letti. Il premier ha rifiutato di vederla e si è messo in tasca il telefono. Un Uncle Scrooge pure ladro, insomma: nemmeno Dickens riesce a contenere il “Boris” natalizio.

GIOVEDÌ SI VOTERÀ dalle sette del mattino alle dieci di sera. Dieci punti di vantaggio separano i conservatori del Labour. 43% contro 32%; i superflui liberaldemocratici sono staccati a un impietoso 13%. Tutti – allibratori, esperti di psefologia, sondaggisti, rabdomanti, cartomanti, scommettitori e medium – danno Boris Johnson in rotta di collisione verso una maggioranza assoluta. Questi giorni di scorribande dei vari leader su e giù per la pancia, il fegato e gli intestini del paese non hanno prodotto nulla di nuovo: era più o meno lo stesso cinque settimane fa, quando è cominciata la campagna elettorale. In mezzo ci sono state altre trenta prime pagine su pogrom orditi dal ferale antisemita Corbyn, sulle folli promesse del manifesto elettorale laburista e su quanto un governo a guida Labour riporterebbe un vago sentore di giustizia sociale in un paese che proprio non vuole – non può! – permetterselo.

SE TUTTO RESTA COSÌ, ci si becca altri cinque anni a guida conservatrice, un quindicennio di dominio analogo a quello del New Labour di Tony Blair, iniziato nel 1997 e finito nel 2010. L’enunciato «Un governo Boris Johnson fino al 2024, più Brexit» non è una risposta al quiz «che cosa potrebbe esserci di ancora peggio della catastrofe climatica?» ma una seria possibilità. Le uniche consolazioni potrebbero essere Chuka Umunna – paraculo della destra postblairiana, transfuga negli insignificanti Change Uk e atterrato infine in campo libdem assieme alla collega Luciana Berger – e il tristo Ian Duncan Smith, il vandalo sociale che con la scusa di riformarlo ha sfasciato il sistema dei sussidi condannando migliaia di persone bisognose all’indigenza, che perdono i rispettivi seggi. Sarebbe una forma di giustizia poetica capace di redimere una sconfitta annunciata. Ma nemmeno fasciamoci la testa prima di rompercela.