«Il Vaticano ha Michelangelo, noi Thornhill». Pronunciato con lo sguardo levato in ebbra contemplazione delle spumeggianti mitografie pittoriche che celebrano l’avvento di una dinastia protestante sul trono di un’Unione che comprendeva la Scozia, esordiva così il peana all’eccezionalismo britannico travestito da discorso che ieri Boris Johnson ha tenuto sotto le volte affrescate della Painted Hall del Naval College di Greenwich. Dipinte, appunto, tra il 1707 e il 1727 da James Thornhill.

A ciascuno il suo, insomma. Per poi aggiungere – dopo altri dieci minuti pirotecnici sul ruolo irenico del capitalismo liberoscambista inglese – a Barnier e i suoi che «C’è già un deal» commerciale tra il regno Unito e l’Ue; che non c’è bisogno di un accordo scritto legalmente vincolante che vigili sul reciproco fairplay, che il paese vuole un accordo di libero scambio a scartamento ridotto come quello del Canada o, alla peggio, quello dell’Australia.

Nessun level-playing field insomma, niente condizioni paritarie su mercato del lavoro, politiche fiscali, ambiente e interventismo economico dello stato come vorrebbe Bruxelles: sarebbe ammettere una condizione di vassallaggio impossibile da far digerire a quegli esagitati che mi sostengono e da cui sono circondato nel partito all’indomani di tanto luminosa vittoria. Tanto più che le nostre regole sono perfino migliori delle loro e noi non ci sogniamo di imporgliele. Né retrocederemo sulle quote del pescato, l’altra linea rossa di Bruxelles (che vorrebbe accesso reciproco alle riserve ittiche a lungo termine): le acque britanniche saranno soprattutto per i pescatori britannici, i trattati che ne stabiliscono l’accesso ai pescherecci europei saranno solo temporanei, annuali. Adesso che anche l’acqua è sovranizzata, come la terra, presto lo saranno anche l’aria e il fuoco nazionali.

IL PROBLEMA È che su tutta la linea Michel Barnier richiede l’esatto contrario: l’accordo di libero scambio – i termini, estensibili, della cui negoziazione scadono il 31 dicembre prossimo – dipende proprio dall’ottemperanza della Gran Bretagna alle due clausole su fairplay e pescato. Johnson e il suo spin doctor Dominic Cummings vogliono far pressione sull’Ue, aprire le danze all’attacco nel tentativo di persuadere l’avversario di avere più da rimetterci in caso di naufragio delle trattative, il vecchio consiglio di Trump. Salvo che ovviamente il deal cui fa retoricamente riferimento il premier non c’è affatto, e in caso di muro contro muro nei negoziati la soluzione australiana collocherebbe automaticamente il paese sotto le regole della World Trade Organisation: equivarrebbe, in buona sostanza, alla solita hard Brexit. Che, infatti, anziché averci abbandonati è ancora lì, più torva che mai nonostante Johnson l’abbia cauterizzata fuori dal discorso e pudicamente indicata con la B iniziale.

DUE ULTIME PENNELLATE di contesto. Il ciclo di affreschi che sovrastava e ispirava la retorica del premier raffigura la successione di George I (1714) a William III e Mary II da un pittore di corte pesantemente influenzato dal barocco italiano (e morto copiando i cartoni di Raffaello). Nell’ormonale fantasia mitopoietica del giornalista e, ahi, storico dilettante primo ministro, l’epigono Thornhill diventa risposta artistico-confessionale della potenza imperiale inglese al “papista” (e controriformista; perché mai non “europeo?”) Michelangelo, il cantore di un’indiscussa egemonia globale che culminerà con il vittorianesimo: tanto profondi sono i fondali storici ai quali il premier ha ancorato la filibusta inglese per giustificare questa tattica negoziale. Né giammai il postmoderno Johnson si perita di bussare infelicemente all’immaginario pop occidentale, pur rinunciando coraggiosamente a citare Star Wars: la Gran Bretagna è piuttosto «un Clark Kent sovralimentato», pronto a farsi supereroe del mercato, dove la metafora non esattamente eco-friendly tradisce platealmente il turbocapitalismo idrocarburato vorace e devastatore (che della filippica è naturalmente presupposto, con buona pace delle profferte di ambientalismo).

COSÌ, GIÀ CHE C’ERA, mentre apriva nel modo più sbagliato le trattative più delicate della storia del paese dal 1945, Johnson si candidava a resuscitare il Lazzaro del neoliberismo occidentale. Sì, perché tra gli elementi che lo distinguono da Trump c’è soprattutto il liberoscambismo insulare, non quel mercantilismo settecentesco in auge in Europa quando Thornhill dipingeva la sua Sistina: monarchica, unionista, imperialista, protestante e un po’ kitsch. Come quest’Inghilterra targata Brexit.