Una bambina va a vivere con i nonni dopo che i suoi genitori sono morti. Sola in una cittadina e in una scuola che non conosce, durante una passeggiata nel bosco, Maryann scopre una casa in cui abita un bimbo molto malato di cui decide di diventare amica. Ma, per ragioni incomprensibili, la madre di lui è decisa a impedirlo. Questa la premessa di The Harvest (letteralmente, Il raccolto), il nuovo film di John McNaughton, geniale chicagoano autore del mitico Henry pioggia di sangue (Henry Portrait of a Serial Killer del 1986, ma bollato con un rating X in America fu proibito nelle sale fino al 1990) e di altre oblique ballate americane come Normal Life (Crocevia per l’inferno), Mad Dog and Glory (Lo sbirro, il boss e la bionda), Wild Things (Sex Crimes-Giochi pericolosi).

Assente dai grandi schermi dal 2001, McNaughton torna con un film lirico e sinistro, con Samantha Morton e Michael Shannon genitori disperati e (forse) diabolici. Le giovani scoperte Natasha Calis e Charlie Tahan sono i due bambini. The Harvest è stato proiettato mercoledì sera a New York, parte dell’annuale rassegna horror Scary Movies. Abbiamo raggiunto John McNaughton a Chicago per quest’intervista.

Il tuo film è parte di una rassegna di horror. In realtà mi e sembrato più una fiaba, un racconto per bambini, anche se molto pauroso.

Per me è chiaramente una fiaba. Alcuni giornalisti mi hanno chiesto se ero stato influenzato da Misery non deve morire, o da Lasciami entrare, due film che non nemmeno ho visto. Per me questo è un racconto dei fratelli Grimm. La mia ispirazione viene da Hansel e Gretel.

Questa dimensione favolistica era già nella sceneggiatura?

No. Dello script originale mi piaceva l’idea di due genitori che vogliono possedere il cuore di un bambino. È una metafora molto forte. Nella storia ho subito riconosciuto Gretel che salva Hansel dalla mamma che li avrebbe lasciati morire di fame, e dalla strega. Ma la sceneggiatura era per quel tipo di film che io definisco «con il babau dietro l’angolo». Film che mi diverto a vedere ma che non ho voglia di fare. Così ho fatto venire a Chicago lo sceneggiatore, l’ho fatto alloggiare a un bed and breakfast vicino a casa mia e l’ho messo al lavoro. Un’altra grande ispirazione è stato Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales, 1976,tr. it. Andrea D’Anna,Feltrinelli, Milano 1977), il libro di Bruno Bettelheim sulla funzione delle fiabe nello sviluppo dei bambini. Come sai, Bettelheim era il capo del Dipartimento di psichiatria della University of Chicago. Ho riletto il libro e da lì mi sono buttato sui Grimm, ho cominciato a immaginare la casa nel bosco, la madre malvagia, il padre debole che vuole fare del bene ma non ha il coraggio. Il mio film era tutto lì.

Alla qualità fiabesca contribuisce molto anche la bellezza delle immagini – il bosco, i colori dell’autunno – che sono molto in contrasto con le cose orribili che succedono ai personaggi.

È stato il mio scenografo, Matthew Mann, a indirizzarmi verso il lavoro di Gregory Crewdson, un fotografo che lavora essenzialmente sui paesaggi e i paesini dello stato di New York. Le sue sono foto magnifiche, molto elaborate, che raccontano intere storie in uno scatto. Infatti, per inscenarle ricorre spesso l’aiuto alla manodopera di Hollywood. Gli ho rubato persino il motivo della tappezzeria…

Anche se si tratta di un film molto diverso, «The Harvest» mi ha ricordato il tuo «Normal Life». Ti bastano poche immagini – qui per esempio l’apertura sulla partita di baseball tra bambini, o il nonno interpretato da Peter Fonda – per rendere sempre un fortissimo senso del paese. Non importa quanto remote o strane siano le storie lo riflettono.

Da giovane non ho viaggiato molto. E sono cresciuto negli anni Sessanta con un’opinione molto critica dell’America. Ho cominciato veramente a viaggiare solo quando ho iniziato a fare cinema. È stato lì che ho capito quanto quello che facevo fosse radicato nella cultura di questo paese.

 

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In effetti, anche se sei considerato un regista horror, il soprannaturale non sembra interessarti molto.

Non mi ha mai interessato I miei film sono studi su personaggi. Henry Portrait of a Serial Killer non è un horror, ma un film su gente che fa cose orribili. E mi piace trovare le cose un po’ da tutte le parti. In questa storia, oltre a Hansel e Gretel, ci ho visto anche un po’ di Chi ha paura di Virginia Woolf? Dove tra l’altro dietro a tutto quello che succede c’è un figlio immaginario. Per forza di cose noi dovevamo essere più letterali, quindi il bambino non e più immaginario, però…

«Henry Portrait of a Serial Killer» è uscito senza rating…Oggi l’horror è molto più sadico. Cosa ne pensi del genere alla «Saw»?

Henry era la nostra occasione di farci notare, anche per quello abbiamo forzato i limiti di quello che era allora «guardabile». Il problema è che, a forze di spingere, si arriva a un punto in cui non importa più niente a nessuno. È un tipo di cinema che non mi interessa. Come il porno: vai online e puoi vedere le cose più estreme che si possono immaginare. E sono noiose.

Il tuo ultimo lungometraggio, «Speaking of Sex» è del 2001, tredici anni fa. Tra allora e oggi hai lavorato per la televisione. E poi cos’altro?

Speaking of Sex è stato visto pochissimo. Quindi, dopo l’11 settembre, quando nessuno voleva più investire nel cinema mi sono trovato in una situazione di svantaggio. Però, in questi anni, tra le altre cose, ho scritto almeno due sceneggiature complete. Una per Bill Murray (che per McNaughton aveva già interpretato Mad Dog and Glory); si intitola The Tragical Comedy of Punch and Judy ed è ispirata dalla popolare coppia di marionette britanniche (a loro volta ispirate dalla Commedia dell’arte, n.d.r.). E poi c’è Evil una storia tipo Rosemary’s Baby basata su un individuo mostruoso che viveva nel mio palazzo. Ho anche in cantiere un altro film con Bill Murray, che non ho scritto io ma che potrebbe partire molto presto.