A ottantun anni «suonati», il decano del british blues, con A Special Life, regala ancora un disco molto fresco, molto giovanile, molto blues ma nello stile english, un po’ rockeggiante e un po’ psichedelico, pur con solide radici nelle culture afroamericane, seguendo una vocazione risalente agli anni Sessanta. Inizia appunto una «vita speciale», quando, lungo il decennio, un oscuro cantante, che strimpella chitarra, pianoforte, organo, armonica a bocca nei jazz club di Londra, da bluesman di nicchia diventa addirittura un divo pop, con i dischi in classifica, proprio come quelli dei «colleghi» Beatles, Rolling Stones, Yardbirds, Spencer Davis Group. C’è al proposito una breve epoca – grosso modo dal 1966 al 1972, prima che la critica angloamericana vampirizzi la musica giovanile, incasellandola in generi e sottogeneri, tra scuole, tendenze, etichette, con tanto di neologismi musicali inventati di sana pianta – in cui il sound generazionale viene chiamato semplicemente pop senza distinzioni particolari: c’è dentro di tutto purché sia nuova, ribelle, originale, che si tratti di beat, psichedelia, west coast, soul, r’n’b, folk, blues revival, hard rock, protest song, jazzrock o progressive non fa differenza, al massimo la si chiama underground, nel senso di sotterraneo anticonformista, per scostarsi da quell’altra musica, definita muzak, ovvero musicaccia nel senso di easy listening, canzonetta leggera o consumistica. E, grazie al british blues, è un dilagare di note ribelli, estatiche, sperimentali, trascinanti, spesso improvvisate, che possono venire accostate, come idea, al concetto di pop-art, sviluppatosi nella pittura sia inglese sia nordamericana in quegli stessi anni. Insomma tanto la nuova musica quanto le arti figurative a New York, Los Angeles, San Francisco e sopratutto nella Swingin’ London rappresentano gli scenari urbani contemporanei fra tecnologie, consumi, mode, rivoluzioni: guardando ad esempio le copertine dei long-playing – compresi i venti lavori di John Mayall di quegli anni – si percepisce un’esuberante creatività unita però all’artificio combinatorio che prelude a una svolta epocale, soprattutto nella teoria e nella prassi dell’estetica contemporanea, che passa da moderna a postmoderna. Forse è anche lecito ritenere John Mayall un precursore del sound postmodernista, nel modo in cui sottopone il blues a un trattamento destrutturante – senza annullare i segni forti della corporeità performativa bluesistica – portandosi fino agli estremi dell’improvvisazione jazz, in cui idealmente John Lee Hooker e John Coltrane, Robert Johnson e Pharoah Sanders si danno la mano o vanno a braccetto.

John oggi, a ottantun anni, come ti definiresti?

Credo che si dovrebbe sapere chi è ormai John Mayall. Il signore sa quante ne ho passate…

Cosa ci dici del tuo nuovo album «A Special Life»?

È stato davvero bello tornare in studio con un’altra etichetta. La separazione dalla Eagle Records, che sembrava non volesse un altro album, era ormai necessaria; mi sono quasi ammalato per le attese estenuanti, e quindi ho scelto la Forty Below per il disco. Ho deciso che questo sarebbe dovuto essere un album di blues «classico», diretto, un album che ancora una volta mi desse l’opportunità di onorare alcuni dei miei eroi, i bluesmen afroamericani

Sembra che tu sia nato con il blues, nonostante la tua origine britannica. Hai una memoria personale dell’infanzia sul blues?

È successo talmente tanto tempo fa che non ricordo esattamente un momento esatto. Sono cresciuto in una casa in cui vivevo a diretto contatto con la musica jazz grazie alla collezione di 78 giri di mio padre.

Ma c’è stato qualcosa o qualcuno che ti ha spinto a diventare un musicista blues?

All’inizio degli anni Sessanta, quando con Alexis Korner e Cyril Davies è iniziato il movimento del blues inglese, ho avuto anch’io la mia opportunità, insomma l’occasione per trovare un pubblico che apprezzasse il blues e la mia musica, cioè la mia idea di blues.

Hai dei maestri?

Ho troppe influenze da elencare, sarebbe davvero lungo e faticoso, sono moltissimi i cantanti e solisti al pianoforte e alle chitarre che ho amato e che amo tuttora…

Nemmeno all’armonica a bocca?

Sonny Boy Williamson è stato il mio riferimento più influente, senza dubbio.

La tua discografia è sterminata; ma c’è qualche un album che ami più degli altri?

Forse tutti, perché ogni mio disco – e come saprai A Special Life è il mio sessantacinquesimo, senza contare i bootleg – ha rappresentato sia gli eventi sia i pensieri che a loro volta hanno influenzato la mia vita, forse «una vita speciale», come ho voluto dire nel nuovo album.

Come vedi la situazione del blues attuale?

Penso che oggi tanti giovani siano ancora attratti da questa musica; talvolta li osservo quando mostrano il loro entusiasmo nel prendere i loro strumenti e nel «fare i blues»; insomma, penso che ci sia una situazione molto salutare per il blues.

Progetti per l’immediato futuro?

Spero di continuare a condividere la mia musica con tutti i miei fedelissimi, insomma i fan vecchi e nuovi. Va tutto bene al momento.

L’intervista con il maestro è anche un modo per ripercorrere la storia dei bluesmen britannici. Non a caso sono molti i bluesmen inglesi a cui il giornalismo musicale affibbia la «qualifica» di father, godfather o grandfather del british blues, a cominciare da Mayall medesimo, che si merita l’appellativo già dal titolo dell’unico documentario su di lui e la sola fonte diretta per i fan italiani, vista l’inesistente bibliografia: John Mayall. The Godfather of English Blues (Bbc 2003, ora in dvd). Diretto da Peter Gibson, è un buon film, che prende in considerazione l’apporto di molti altri musicisti, come ribadisce anche lo stesso John, che non rivendica certo la parte nota del british blues, anzi nella pellicola tende a ribadire l’importanza ad esempio della «triade» storica Alexis Korner, Cyril Davies e Graham Bond. Ma anche prima di questi ultimi qualcosa si muove nel Regno Unito: già a metà degli anni Cinquanta si inventa un genere, lo skiffle, il cui principale esponente resta il cantante Lonnie Donegan, mischiando disinvoltamente blues folk, country, jazz; e proprio il jazz, nella forma arcana del dixieland (talvolta unito appunto allo skiffle), imperversa nelle Isole Britanniche grazie a solisti popolari come Chris Barber e Humphrey Lyttleton. I giovanissimi non amano però tali contaminazioni tanto disinvolte quanto un po’ kitsch, e dunque, quasi per reazione, nascono, soprattutto nei quartieri poveri londinesi, alcuni «puristi» impegnati a suonare esclusivamente blues tanto sulla scia di miti come Robert Johnson e Blind Lemon Jefferson quanto abbracciando le chitarre elettriche come vanno facendo negli States bluesmen come Muddy Waters, T-Bone Walker e i tre «re» B.B. King, Albert King e Freddy King. Parlando invece della triade storica, nei gruppi di Cyril Davies (1932–1964) si esibiscono via via Ginger Baker, Long John Baldry, Jeff Beck, Jack Bruce, Eric Burdon, Dick Heckstall-Smith, Nicky Hopkins, Mick Jagger, Brian Jones, Paul Jones, Jimmy Page, Keith Richards, Rod Stewart, Charlie Watts, Ronnie Wood. Con Graham Bond (1937–1974), oltre Baker, Bruce, Heckstall-Smith, si trovano Jon Hiseman e John McLaughlin. E soprattutto accanto ad Alexis Korner (1928–1984) cantano o suonano gli stessi Bond, Davies e ovviamente Mayall, i già citati futuri Cream, Rolling Stones, Led Zeppelin, Small Faces, i nuovi Dick Morrisey, John Surman, Danny Thompson, Mike Zwerin. Nei primi gruppi di Davies, Bond, Korner c’è insomma il gotha del nascente rock inglese e in contemporanea, tra il 1965 e il 1970, a Londra e dintorni si assiste a una splendida fioritura di bluesmen, da Tom Jones ad Alex Harvey, da Joe Cocker a Rory Gallagher, da Davy Graham a Zoot Money, da Bert Jansch a John Renbourn (i futuri folk-oriented Pentangle) e soprattutto di giovani blues band come Chicken Shack, Fleetwood Mac, Groundhogs, Savoy Brown, Steampacket, Taste, Ten Years After, alcune destinate (come i solisti) a diventare icone pop, modificando però il proprio sound verso generi commerciali. E, per finire, non vanno dimenticati gli esordi blues di gruppi prog come Jethro Tull o hard quali i Led Zeppelin o addirittura gli stessi Rolling Stones il cui primo album è tutto di cover blues. Poi, le morti precoci degli stessi Davies, Bond, Korner, e soprattutto la scelta della California da parte di John Mayall segneranno per sempre il destino del british blues o almeno di quella favolosa stagione.