John ‘Rotten’ Lydon è tornato. La voce dei Sex Pistols e dei Public Image Ltd pubblica “What the World Needs Now…” , decimo album in studio dei PiL, e continua a rappresentarsi nel modo che più gli pertiene: un perenne stato di allerta su tutto e tutti, un viaggio creativo alle radici della rabbia, cosmica, sociale, politica, esistenziale. Con ritmi ipnotici altamente percussivi, versi irridenti, classici rantoli vocali alla Lydon, titoli emblematici quali I’m not Satisfied o la stessa risposta alla domanda posta dal disco: di cosa ha bisogno il mondo ora? Un «altro fuck off» (gridato in Shoom, ultimo pezzo dell’album). Ancor prima c’era stata l’efficace autobiografia (la seconda) Anger Is an Energy in cui punti di vista critici e politici attraversano il testo soffermandosi con cura sulla biografia umana e artistica del musicista; drammatico l’episodio della meningite che lo colpì a otto anni lasciandolo privo di memoria, poi gradualmente riacquistata. In mezzo un mondo di accadimenti: reunion dei Sex Pistols, pubblicità per il burro inglese Country Life, partecipazione a folli reality, emissione di carte di credito dedicate ai Pistols ecc.

L’intervista che segue nasce da due lunghe chiacchierate telefoniche; la prima (3 luglio) in occasione di un programma radiofonico condotto da chi scrive insieme all’artista a cui era stato chiesto di presentare cinque tra i suoi brani preferiti di sempre; la seconda (8 settembre) molto più centrata sul nuovo album. Si è deciso di trascriverle entrambe. Da notare che i Pil arriveranno molto presto in tour in Italia: il 10 ottobre al centro sociale Rivolta (Via F.lli Bandiera, 45 – Marghera, Venezia, euro 15) e l’11 ai Magazzini Generali (Via Pietrasanta, 16 – Milano, euro 30). John vive non distante da Los Angeles e in occasione della prima intervista era ancora negli Usa; la seconda è una telefonata da Londra.

– John, come stai? Sono le 10, magari ti ho svegliato.

Sto bene, grazie. In realtà mi sveglio molto presto, di solito alle sei o alle sette, mi piace il sole di prima mattina, invecchiando mi va di riempirmi completamente di questi giorni di sole. Mi piace ogni aspetto dell’essere sveglio.

– Dalla voce sembra una giornata tranquilla, mica quella che racconti nel singolo «Double Trouble», il pezzo che apre il nuovo album; lì c’è una battaglia tra te e tua moglie su chi doveva chiamare l’idraulico per via di un gabinetto intasato.

Esattamente. Il singolo “Double Trouble” nasce da un discussione che ho avuto con mia moglie sul water. È una tipica situazione domestica. Con un finale positivo. Queste cose le trovo molto interessanti, perché così va il mondo, non è vero? Penso che se troviamo piccole soluzioni nelle nostre vite quotidiane non dobbiamo andare a fare la guerra per le cose più grandi.

– L’inizio della canzone è esilarante, stracolmo di parolacce, sei così arrabbiato, vorresti prendere l’idralico e appenderlo…

Siii! E esattamente quella la situazione.

– Sia quel pezzo che l’intero album hanno un suono così compatto, fisico.

Tutto l’album nasce da un lavoro altamente collettivo, e poi c’è anche piaciuto molto dove l’abbiamo registrato, ai Wincraft studios, un vecchio granaio riconvertito in studio (di proprietà di Steve Winwood, si trova nel Gloucestershire); il soffitto di legno pesante, le finestre sulle mura perimetrali di pietra, tutto molto denso. L’intento era di esplorare l’idea stessa di struttura, lavorare su ritmi molto semplici e vedere cosa sarebbe venuto fuori. È l’album dei PiL di cui sono più orgoglioso; e l’aspetto più bello è che dopo tutti questi anni la mia voce è finalmente uno strumento; è l’unica volta rispetto ad altri dischi del passato in cui sono riuscito a svilupparla in questo modo, ad esplorare nuove possibilità; finora questi ragazzi sono stati la migliore incarnazione dei PiL, hanno cancellato la mia timidezza, siamo molto amici; tra noi c’è grande rispetto, non c’è mai stata una corsa a finire il disco.

– Ti piace la tua voce?

Sì, mi piace, e adesso ho scoperto che finalmente riesco a riascoltarmi su un disco. Ovviamente mi sono sempre riascoltato ma non mi sono mai piaciuto come stavolta, ora la voce la sento molto naturale e istintiva anziché forzata. Questo nasce anche dalle circostanze ambientali e dai rapporti amichevoli che abbiamo instaurato tra di noi.

– C’è un forte legame tra i pezzi. Dopo averlo ascoltato ti senti quasi solo, intorno uno scenario di devastazione (sociale, politica, ambientale). Addirittura in «Big Blue Sky» canti «non mi sento assolutamente umano’». Nessuna soluzione all’orizzonte?

Le questioni vanno prima interiorizzate e poi si può cominciare a pensare alle soluzioni, prima di puntare il dito bisogna vedere cos’è che non va in ciascuno di noi. Siamo troppo inclini a giudicare e i giudizi troppo sbrigativi generano decisioni sbagliate. Una delle conseguenze della modernità è questa costante idea di velocità, procedendo così si generano incomprensioni ed eccoci di fronte ad un nuovo disastro mondiale all’orizzonte; il mio cuore è con tutte queste persone che migrano dal medio oriente, voglio che vengano aiutate e non si aiutino da sole finendo per convertirci tutti in musulmani. Sono questioni importanti e per il bene di tutti vanno discusse apertamente. Nella fattispecie Big Blue Sky è un pezzo che racconta la bellezza assoluta del paesaggio desertico statunitense, un elemento che ha fatto da cornice alle azioni dei primi immigrati negli Usa che in maniera velocissima hanno massacrato le popolazioni native, e quando canto «I don’t feel human at all» penso a questi maledetti cowboy che trascorrevano i fine settimana a fare massacri, in un certo senso sono stati precursori dell’Isis.

– Quando scrivi hai bisogno di comporre in solitudine?

No, no, faccio tutto con la band, ovviamente sono pensieri miei, sono già presenti nella mia testa, ma non vengono elaborati in precedenza, nascono da un collaborazione totale.

– Nel disco giochi molto con le parole, lo hai fatto anche in passato ma nel nuovo disco è molto marcato. A seconda dell’intonazione, di come moduli la voce le parole acquisiscono nuovi significati, in pratica non hai bisogno di usarne cento per raccontare quello che hai mente, ne bastano poche ma fatte suonare in un determinato modo. Si avverte in «The One» in cui travolgi la parola ’clown’ o in «Know now» in cui giochi con la frase «non voglio conoscerti, non ho bisogno di conoscerti».

Questa è l’esatta ambizione di Know now, pochissime parole massima efficacia; penso che così si riesca a veicolare l’idea di furia e di rabbia in una maniera assolutamente deliziosa, e non si tratta di stile vocale, qui quello che conta è che io devo pronunciare le parole in maniera efficace perché mi devo far capire bene; con la dizione riesco a raggiungere tonalità perfette e diventa uno strumento utilissimo. Non ho mai studiato musica o canto, e da quel punto di vista non ho mai avuto l’ambizione di essere un cantante professionista, un cantante classico si divertirebbe molto a sentire la gamma vocale che utilizzo; ho dovuto cercare la mia voce molto velocemente nella musica, l’ho fatto e la perfeziono in quel modo, non mi sono mai ispirato a nessuno.

– A sorpresa questo è un disco in cui canti molto.

Sì, mi sono sempre trattenuto, forse mi mancava la fiducia in me stesso; adesso ho superato questo limite anche grazie al rapporto con la band, mi hanno incoraggiato ed è stato tutto molto naturale. Direi che è stata un’intesa spirituale e nelle cose dello spirito includerei anche il brandy. (pausa, ride) Remy Martin Vsop, il mio colluttorio preferito.

– Come sarà questo tour?

Faremo anche molti pezzi vecchi. Sarà un set lungo e intenso. Ci piace improvvisare e forzare i limiti. Del resto parlando dei Pil l’industria musicale ci considera un gruppo di spostati, impossibili da catalogare. Penso che la musica serva per sperimentare. Con noi il live è un’esperienza, una chiesa senza religione. La cosa più vicina a uno spettacolo d’opera. Una delle prime cose che feci quando sono stato a Roma per cinque mesi per Copkiller, il film che girammo a Cinecittà con Harvey Keitel, fu di andare a vedere spettacoli d’opera. Mi fa impazzire l’armosfera, le persone in piedi che cantano accompagando le canzoni, l’atmosfera e l’intimità dei teatri; rispetto ad altri paesi da voi l’opera è molto diretta, non è per niente snob, è funk music!

– È difficile essere John Lydon?

È l’unico John che conosco, non ho mai avuto la possibilità di essere un’altra persona, anche quando recitavo in Copkiller ero sempre io, sono l’unico che conosco e sono contento.

– Più difficile essere John Lydon o Johnny Rotten?

Penso che sarebbe stato più difficile se fossi morto da giovane.

– Che è poi una cosa che racconti anche in «I’m not Satisfied», sempre sul nuovo disco.

Quel pezzo riguarda diverse cose, intanto tutte le malattie della mia infanzia, sono stato soddisfatto nel momento in cui non ho ritrovato la memoria, forse è stato il periodo più doloroso di tutta la mia vita; poi quando la memoria è tornata è stato così doloroso, nemmeno riconoscevo mia madre e mio padre, sono cose che ti lasciano con un profondo senso di colpa e un pezzo come I’m not Satisfied mi ha aiutato molto a venire a patti con quella storia, più del libro Anger Is an Energy.

– La cosa che ho sempre apprezzato di John Lydon/Rotten è il fatto di metterci sempre la faccia, di autorappresentarsi nella maniera più onesta possibile.

Tu ottieni quello che dai, non ho mai mentito a nessuno, o almeno fino a prova contraria. Dal punto di vista musicale cerco di rappresentarmi nel modo più accurato possibile. Le mie canzoni vengono dal cuore, scrivo quello che vedo, quello che vivo, c’è pochissima fantasia, mi interessa molto l’accuratezza, la precisione; e questo ha che fare con quanto succedeva quando ero piccolo, come ho già detto ero seriamente malato, stavo quasi per morire, sono stato in coma per quattro mesi, quando sono uscito dal coma avevo perso la memoria, quindi per me è sempre stato importante essere accurato su tutti i dettagli della mia vita. Le mie canzoni contengono riferimenti a quello che voglio fare, a quello che sto facendo e a quello che ho fatto. L’unico vero dono che ho avuto è la vita e traduco la vita nel fare musica. Hai solo una vita, non so se ce ne sarà un’altra dopo la morte, ne dubito e quindi finché sono qui devo essere molto preciso, accurato, non voglio vivere in un’illusione, una bolla.

– Cos’è che ti fa arrabbiare di più oggigiorno?

Questo senso di privazione che riguarda i migranti, il senso di sorpresa di chi ci governa che resta impotente, il fatto che nessuno sembra essersi accorto di nulla e invece tutti noi sappiamo che era inevitabile, e poi le quote profughi di ciascun paese, di esseri umani trasformati in un gioco di statistiche, cosa di cui dovremmo vergognarci, ed è il risultato di guerre iniziate dall’occidente secoli fa, ecco a cosa porta fare le crociate.

– Nel nuovo disco c’è anche «Bettie Page», un pezzo dedicato alla pin-up statunitense; in realtà è un pretesto per far affiorare la faccia sporca di un paese che nella canzone descrivi come «la nazione più pornografica del mondo».

Quest’ultima è una considerazione che apre la porta a tantissime altre considerazioni; è strano che sia proprio io a scrivere un pezzo del genere sugli Usa ma sono diventato un cittadino americano e questo è il mio saluto di benvenuto, ciao America, grazie per avermi preso. Il risultato della vostra accoglienza è che dirò la verità.

– Anche la copertina del nuovo disco è disegnata da te; è un omaggio ai nativi statunitensi Hopi e ai Kachina, i loro spiriti sacri.

Ho un rapporto molto forte con la cultura dei nativi Usa, mi sono sempre piaciute le loro musiche, le loro culture, le loro filosofie. Mi piace il kachina birichino degli Hopi, rende bene l’idea di cosa sia quest’album; in tutte le culture c’è il folle che alla fine dice la verità, che contesta politici e leader religiosi, mi identifico in questi personaggi, magari il solo fatto di pensare di poter essere paragonato a uno di loro può sembrare un’autocelebrazione ma non è questo l’intento, piuttosto la mia più grande ambizione sarebbe quella di essere capace di dire la verità e fare a pezzi la cultura dominante.

– Trascorri molto tempo a dipingere?

Sì e peraltro ho sempre curato la grafica di ogni disco; dipingere è una cosa che amo ma la tengo per me, le uniche occasioni in cui rendo pubblica questa mia passione per la pittura è quando cerco di spiegare la musica attraverso forme e colori.

– Hai mai fatto una mostra?

Mai, il mondo dell’arte è terribilmente corrotto e il talento è giudicato solo in base a quanto i mercanti d’arte sono disposti ad investire, un po’ come l’industria discografica; mi dispiace perché è un mondo che amo. I miei quadri stanno tutti appesi sulle pareti di casa mia. L’oceano è un tema che mi attrae molto; creo paesaggi oceanici anche utilizzando collage con giornali, polimeri e altri elementi materici; dipingo anche foreste, deserti e per molto tempo sono stato influenzato dai dipinti su roccia dei nativi Usa, riescono a travolgermi, non mi piacciono solo i segni ma anche i colori delle rocce utilizzate; tendo a utilizzare colori primari, rossi e gialli molto ricchi, blu profondi e sfumature di verde, questi sono i colori che preferisco. Il posto dove puoi vedere i miei quadri è il libro Mr Rotten’s Scrapbook.

– Ascolti anche molta musica?

Costantemente. Mi piace ogni aspetto della musica ad eccezione del jazz tradizionale di New Orleans che mi ricorda troppo gli ingorghi del traffico in Francia. È troppo dissonante anche se talvolta io stesso gioco con la dissonanza per evidenziare un’emozione; eppure per me quello è un suono irritante. Non ho dubbi che nel tempo supererò anche questa cosa. Credo che c’è qualcosa di sbagliato in me e non in quella musica, devo capire cosa.

– Ci sarà un’altra reunion dei Sex Pistols?

Non penso, ne abbiamo riparlato – in particolare con il batterista Paul Cook – e abbiamo capito che per restare amici non dobbiamo ritrovarci insieme in un gruppo.

– Magari uno show e basta

Forse nemmeno quello. Teniamo più al rapporto tra noi che a far parte di quella band.

– Intorno ai Sex Pistols si è scatenato negli anni un feroce collezionismo. Per caso hai la copia di «God Save the Queen» stampata in origine su A&M e mai messa in commercio? Oggi vale fino a 15mila euro.
No, non ce l’ho mai avuta, e non vale mica tutti quei soldi! Le persone generano un sacco di soldi intorno alle versioni rare dei pezzi ma per me non conta la rarità, conta il contenuto. Non sono da quel punto di vista un collezionista d’arte, non ho mai fatto un disco pensando a quanto possa essere prezioso, quando faccio un disco lo condivido con il mondo.

– Che mi dici della carte di credito Virgin/MasterCard dedicate ai Sex Pistols che stanno per uscire?

È stato un colpo di genio di Richard Branson (il boss della Virgin), sono rimasto molto impressionato, questa è anarchia totale, una carta di credito dei Sex Pistols! Immagina il tuo conto in banca, immagina quando entri in banca con quella carta; è davvero «cash from chaos» (’guadagnare dal caos che riesci a generare intorno a te’ era uno degli slogan preferiti di Malcolm McLaren), e se ti rifiutano la carta di credito gli dici ‘never mind the bollocks’. È stato un bel complimento, Branson avrebbe potuto scegliere e coinvolgere qualsiasi altra band e invece ha scelto noi, è un modo per divertirsi e prendere in giro il sistema. Insomma, c’è un posto anche per noi nella società, non azzardatevi a farci fuori. Non vedo l’ora di avere la mia, ne abuserò. Ah ah ah!

– John, ma tu sei consapevole di quello che hai fatto finora come Johnny Rotten Lydon?

Devo esserlo e per questo smisi con i Sex Pistols, perché mi ero reso conto che i media stavano trasformando Johnny Rotten in una caricatura, in un cartone animato, se non avessi abbandonato quella barca che affondava anch’io sarei stato trascinato in fondo al mare, mi sarei ritrovato ad imitare me stesso, per prigrizia.

– Non intendevo quello, pensavo all’incredibile ruolo culturale che un artista come te ha avuto. Pensi mai a quanto sei stato grande?

Bè, oggi lo sono di più perché bevo un sacco, ah ah ah. Sì capisco quello che vuoi dire ma non ho tempo di stare lì troppo a pensare perché il futuro è sempre lì che mi aspetta, non sono il tipo di persona che si crogiola nella gloria, ho bisogno di continuare a spostarmi in avanti. Persone come me non muoiono o vanno in pensione o si addolciscono, gente come me non la cambi mai.

Sei comunque riuscito a tenere insieme due pubblici diversi, dei Sex Pistols e dei PiL…

È vero, anche se alla fine si sono un po’ fusi, almeno in parte; per un certo periodo ho intrapreso carriere completamente separate, ehi, potevo diventare bipolare. E comunque mi piace fare le interviste, mi piace parlare con le persone e spiegare quello che faccio, e mi piace imparare.

– Hai qualche rammarico?

Le conversazioni rimaste a metà con mia madre e mio padre, morti entrambi senza che io gli abbia potuto dire quanto li amavo, ancora mi perseguita questa cosa, mi mancano molto. È la colpa cattolica.

Ecco i cinque brani scelti e commentati da John Lydon nel corso del programma Popcorner su Rai Radio2

1. Bee Gees, New York Mining Disaster 1941
«Un gruppo molto strano ma mi piacevano quelle armonie vocali. Nessun paragone con quello che avevo sentito prima. Da ragazzino non riuscivo a capire cosa stessero cantando. Pensavo fosse un menage a trois e invece è la storia di due minatori intrappolati che si preparano a morire e uno fa vedere al collega (un certo Mr Jones) la foto della moglie. Trasmettono quasi un senso di infelicità ma alla fine offrono una speranza».

2. Donna Summer, I Feel Love
«Per me lei è incredibile; ero in una discoteca frequentata da lesbiche, ero con delle amiche ed esplodeva dalle casse, l’atmosfera del pezzo è così calda. Mi interessano tutti quelli che cercano di andare oltre, estendere il confine. Ho ballato molto gli extended mix di quel pezzo, sono un ballerino orribile ma mi piace tantissimo andare a ballare».

3. Dean Martin, That’s Amore
Mi piace Dean Martin, si presentava come un ubriacone, le voci dicono che facesse finta, comunque per me faceva le cose per bene, in maniera affascinante e alle signore piaceva, con lui era tutto molto sofisticato; come attore la sua era una recitazione di prima classe, aveva un umorismo così imperturbabile, secco, sempre puntuale nelle battute, aveva un gran senso del ritmo, era molto italiano con uno stile americano; le parole del pezzo sono allo stesso tempo così isteriche, buffe e così romantiche. E se non ti piace vuol dire che non ti piace la vita. L’avrei voluto scrivere io un pezzo così, sarebbe stato in linea con il personaggio. Ovviamente con i PiL, del resto non ci sarebbe altra possibilità e sarebbe un omaggio a lui. Mi piaceva molto nei film; al contrario non mi è mai piaciuto Jerry Lewis, quella coppia non l’ho mai capita. Sino cresciuto con queste cose, le commedie mi hanno sempre attratto, mi hanno insegnato sulla vita più di qualsiasi altro intellettuale

4. Augustus Pablo, King Tubby Meets the Rockers Uptown
Quando è uscito per la prima volta nei prmi anni settanta era sul lato B del singolo di Jacob Miller Baby I Love You so: Augustus Pablo aveva fatto il remix dub strumentale di quella canzone. Siamo agli albori del dub, ha svelato un sacco di possibilità sonore. La cosa incredibile è che era tutto fatto in un ridicolo studio giamaicano e con pochissimi mezzi; quando il cervello si applica nel migliore dei mondi ecco cosa esce fuori, ottieni suoni splendidi. Per me è uno dei punti più alti del dub. Io sono cresciuto a Londra a Finsbury Park, era una comunità multienica, greci, turchi, giamaicani, irlandesi e anche inglesi, siamo cresciuti con questa mescolanza di culture; il reggae fa parte della mia vita, è vitale. Nel ’78 sono anche andato in Giamaica per conto della Virgin per scovare nuovi talenti. Volevo rompere le barriere, tutte le porte dovrebbero essere aperte soprattutto nella musica; l’errore e la cosa imbarazzante è quando i gruppi bianchi vogliono fare i giamaicani.

5. Public Image Ltd, Disappointed
È una canzone sull’amicizia. E quando a volte gli amici ti deludono e li perdoni allora le amicizie si rafforzano. È anche un pezzo sull’imparare a perdonare. Tutti gli errori che vedi negli amici sono cose che anche tu potresti fare, bisogna imparare che le persone sono come te, che hanno forze e debolezze, dobbiamo riconoscere questa cosa se vogliamo trasformare il mondo in un posto migliore. È stupido vivere con l’idea di vendetta, ovviamente ci sono questioni con alcune persone che non giustificano il perdono, ma sono molto poche; e io non posso sopportare l’idea di odio, con me non funziona. Eh sì, sono proprio una persona carina…