L’eleganza assoluta, inconfondibile: nella vita quotidiana, sul palco, nelle composizioni. Nello stile con cui affrontava la sfida degli ottantotto tasti come fossero altrettante persone di valore con cui intrattenere colta conversazione, venendone a capo senza lasciare né malumori né insoddisfazioni. E senza una parola di troppo: perché lui suonava asciutto e preciso, e parlava chiaro e cortese. La cultura personale: immensa, estesa a latitudini che non ci aspetterebbe nella mitografia squallida e ziotomistica dei «jazzisti neri», e che invece è moneta corrente. Nel suo caso, una conoscenza maniacale, oltre che delle fonti afroamericane, della storia della commedia dell’arte italiana, delle note eurocolte e in particolare della musica barocca italiana e francese. L’eleganza, lo stile, la cultura sono stati tratti essenziali della figura di John Aaron Lewis. Nato a La Grange, Illinois, il 3 maggio del 1920.
Questo mese avrebbe compiuto cent’anni, e di sicuro non si sarebbe meravigliato, lui che era stato in anticipo sui tempi di decenni, di vedere come e quanto il jazz sia diventato una spina dorsale nella storia delle note: magari non sempre evidente, ma proprio perché ormai consustanziale al panorama sonoro corrente, nei fatti prima che nella teoria. La teoria, già: ce n’era molta nella storia dell’uomo che si ritrovò a fondare uno dei gruppi più eleganti e meno compresi nella storia delle note afroamericane, il Modern Jazz Quartet. Spesso afflitto, in tempi anche recenti, dallo stigma che avrebbe confinato il gruppo nero in una sorta di parcheggio musicale alla rincorsa perdente della nobiltà di gesto, di vesti, di espressione del camerismo «bianco». Nulla di più posticcio. Ma, per arrivarci, è il caso di ripercorrere i tratti salienti di una vita bella e piena, la vita del Maestro John Lewis, pianista e compositore, nato in una delle rare famiglie della borghesia nera, cresciuto nel New Mexico, trovatosi con una tastiera sotto le dita a sette anni, ottimo studente, universitario allievo dei corsi di antropologia, poi soldato ventiduenne nel corpo di occupazione statunitense della Normandia, dopo il «D Day».

INCONTRI DECISIVI
La storia del jazz vive anche di incontri fortuiti e decisivi: lui, con l’elmetto in testa e gli scarponi ai piedi si trovò a condividere rischi e rancio con Kenny Clarke, sei anni più anziano, leggendario batterista che sarà una delle colonne del guizzante e nervoso bebop newyorkese. Sarà lui a consigliargli l’ambiente effervescente e stimolante della Grande Mela, e dopo la guerra John Lewis è lì, allievo della Manhattan School of Music, particolarmente versato nella composizione. Di sera alle jam infuocate del Minton’s di Harlem, dove i giovani jazzisti smarcati dagli obblighi di fila nelle orchestre swing stanno mettendo a punto la frenetica e innovativa sintassi espressiva del bebop. Lì riceve l’ingaggio come arrangiatore e pianista da Dizzy Gillespie, che sta coltivando il sogno di un’orchestra che abbia la potenza dello swing, e l’ardire melodico e ritmico del bebop: alla batteria c’è il suo commilitone, Kenny Clarke, al vibrafono Milt Jackson, al basso Ray Brown, con i quali quale stringe subito amicizia. Sono anni tumultuosi, in cui succede di tutto, nel jazz. John Lewis col suo tocco cristallino di ascendenza classica, ottima cultura musicale, e un modo di muoversi con sicurezza tra partiture anche complesse e improvvisazione è l’uomo giusto al posto giusto: che in quegli anni del secondo dopoguerra è il leggendario «loft» newyorkese del compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra autodidatta Gil Evans. Lì s’incontrano George Russell e Gerry Mulligan, Lee Konitz e Max Roach, e due altri nomi chiave del jazz, Miles Davis e Gunther Schuller, cornista della Metropolitan Orchestra molto interessato a gettare un ponte tra note classiche e jazz, quella «terza possibilità» rimasta a oggi non del tutto esplorata che verrà poi definito «Third Stream», la terza corrente.
È nel loft di Gil Evans che nascono gli embrioni di Birth of the Cool, e l’apporto compositivo e di idee di John Lewis è fondamentale. Lui continua a interessarsi di tutto, e tutto contemporaneamente, nel jazz: suona con Charlie Parker, con Dizzy, con Illinois Jacquet, poi gli viene in mente di fondare un suo gruppo con Ray Brown, Clarke e Jackson, in pratica un «ritaglio» della big band di Gillespie, dalla caratura timbrica inedita, con vibrafono, pianoforte, contrabbasso e batteria. Non tutto funziona come va intuendo Lewis. L’organico si assesterà poi in quello che oggi tutti conoscono come Modern jazz Quartet quando il posto al basso di Brown sarà rilevato da Percy Heath, altro musicista che ben conosce le note classiche, oltre che il jazz – tra le braccia ha un Ruggieri del Seicento -, e quello alla batteria da Connie Kay, un percussionista raffinatissimo che ha, anch’egli, studi classici alle spalle, e un controllo delle dinamiche. È il 1952, inizio di un’avventura che durerà diversi decenni, il punto d’incontro tra scrittura e improvvisazione è perfetto, con quell’organico, e Lewis si spinge oltre ancora. Ad esempio introducendo il principio della fuga nelle sue composizioni, in cui può anche albergare improvvisazione, oltre alla scrittura. E il gruppo si muove con apparente naturalezza in un reame dove le note sono messe in continua prospettiva contrappuntistica, secondo gli amori barocchi di Lewis. Questa sarà l’impronta forte ed elegante del Modern Jazz Quartet, con una estetica forse non rivoluzionaria, rispetto alle fiammate della New Thing (ma Lewis è un ammiratore e sostenitore in tempi non sospetti di Ornette Coleman: sarà lui a presentare il sassofonista eretico texano all’etichetta Atlantic, e un disco del MJQ sarà intitolato come la più bella composizione di Ornette, Lonely Woman), ma sempre affascinante, ed inclusiva. Sonny Rollins, Laurindo Almeida, Jimmy Giuffre, Paul Desmond alcuni degli ospiti eccellenti del gruppo, sui palchi e nei dischi. Tutti incontri riusciti, perché alla base c’è la formidabile elasticità e bilanciamento del telaio Modern Jazz Quartet. In cui spesso entrano anche altri amori di John Lewis: ad esempio quello per una musica che sia elegantemente «teatrale», con riferimenti al mondo della commedia dell’arte o ai magnifici scenari urbani conosciuti in Europa, come Piazza Navona o Versailles.

STRATIFICAZIONI
Un’estetica che arriva a sfiorare la psichedelia, nelle risonanze ovattate e opalescenti di vibrafono e piano quando il Modern Jazz Quartet si trova a incidere per l’etichetta dei Beatles, la Apple: una fase che bisognerebbe tornare ad approfondire, e che fa da preludio a una prima drammatica separazione, poi ricomposta.
John Lewis, con il suo tocco nitido e preciso sul piano (ma suonava anche da maestro il clavicembalo) e la stratificazione fitta di culture musicali che si portava nelle dita, nel cuore e nella testa (la «confluent music», come l’ha definita il critico Clarence Stuessy Jr.) è stato anche un ottimo compositore di per sé, oltre agli anni affollati di date e dischi del Modern Jazz Quartet. Ad esempio nel mondo del cinema, con molte efficaci colonne sonore all’attivo, e con alcuni dei più bei brani da riascoltare nella stagione della Third Stream: quelli che ritroviamo in un disco sontuoso e riuscito come in The Golden Striker/Music for Brass and Piano, dove rifulge tutta la maestria di Lewis nell’arrangiamento degli ottoni. Senza mai dimenticare, però, che John Lewis è stato sempre e comunque uomo della mediazione tra i due mondi, quello afroamericano e quello «classico»: del primo s’è sempre portato un amore diretto e sempre affiorante per il blues e per i maestri da non dimenticare, come il Louis Armstrong di When the Saints citato in Mean to Me del MJQ, del secondo un rigore che non ammetteva sbandamenti.