David John Moore Cornwell, in arte John Le Carré, conosceva le lingue e il valore delle lingue. Le aveva insegnate a Eton, era professore e insieme ufficiale dell’MI5, il servizio di sicurezza del Regno unito. Nell’Intelligence, del resto, era entrato a 19 anni, nel 1950, grazie alla padronanza del tedesco: interrogava fuggiaschi della Rdt che varcavano la cortina di ferro. Oltre 67 anni più tardi, mentre proseguiva la sua battaglia politica e culturale contro la Brexit, avrebbe ancora consigliato ai giovani del Regno Unito di imparare il tedesco: stavolta per unificare e non per combattere.

LE CARRÉ CONOSCEVA il mestiere di cui parlava nei suoi libri, sapeva che quelle battaglie si combattevano anche imparando le lingue, con le parole, con l’astuzia, con la dissimulazione, con il tradimento, con la disinvoltura morale e solo qualche volta, almeno sul fronte occidentale, con le armi. Era stato un soldato della guerra fredda, è destinato a restare nella storia della letteratura come il grande scrittore di quella guerra. Ne era anche l’orfano: caduto il Muro ha continuato a scrivere cose eccellenti che non hanno però aggiunto un millimetro alla sua statura. Era un uomo e uno scrittore della seconda metà del 900. Nel mondo di Bush, Trump e Putin era un sopravvissuto.

Tra le sue due vocazioni, quella di spia e quella di scrittore, alla fine probabilmente avrebbe comunque optato per la penna. Lo tolse dall’imbarazzo della scelta Kim Philby, l’alto ufficiale dell’intelligence inglese riparato nel ’63 a Mosca dopo anni di doppio gioco. Indicò i nomi degli agenti di sua maestà li mise fuori gioco e trasformò Le Carré in uno scrittore a tempo pieno. L’ormai ex agente si sarebbe a modo suo vendicato con il suo libro più famoso, La Talpa, storia della caccia a un doppiogiochista piazzatosi ai vertici dei servizi segreti inglesi e modellato proprio su Philby. Ma anche, nel romanzo, amante della moglie bella, ricca e infedele di Smiley.

Le Carré aveva cominciato a scrivere nel 1960, subito dopo esser passato dall’MI5, il servizio di sicurezza, all’MI6, l’intelligence, spinto da Lord Clanmorris, ufficiale dell’MI5 che firmava i suoi romanzi con lo pseudonimo di John Bingham e che avrebbe fatto da modello, intrecciato con lo storico Vivian H. Green, per il più celebre e più ricorrente tra i personaggi di Le Carré, George Smiley. Lo pseudonimo non era un vezzo: il Foreign Office non permetteva ai funzionari di pubblicare con il proprio vero nome. Scelse una firma che in francese si traduce «il Quadrato» e certo lo intendeva anche nel senso del carattere, un tipo senza impennate da avventuriero, un po’ come Smiley. Poteva esserci una non troppo velata polemica con Ian Fleming e il suo 007 che proprio in quei primi anni ’60 spopolava, imponendo un quadretto della spia a metà tra il playboy e Superman.

DI CERTO LE CARRÉ immaginava Smiley come «un antidoto a James Bond», che per lui era «un gangster» oltre che per nulla realistico. Lui, invece, voleva raccontare davvero il mondo delle spie e la sordida guerra nella quale erano impegnate. Ci riuscì meglio di chiunque altro, soprattutto nella trilogia, pubblicata tra il 1974 e il 1979, che inizia con La Talpa, prosegue con L’onorevole scolaro e si conclude con Tutti gli uomini di Smiley: la storia di un duello, quello tra Smiley e il suo omologo sovietico Karla, in cui i contendenti sono simili, forse identici, impegnati in una partita a scacchi nella quale i pezzi sacrificabili e sacrificati sono vite umane. Smiley è anonimo, all’apparenza grigio, estremamente lucido e dunque consapevole dei metodi inconfessabili e dei compromessi morali ai quali i difensori della democrazia soggiacciono, e che li rendono non molto diversi dai nemici dall’altra parte del Muro.

Il realismo, contrapposto alla finzione di Fleming, non sarebbe bastato a fare un grande scrittore. Lo stesso obiettivo, in fondo, perseguiva negli stessi anni anche Len Deighton, con libri molto più reali della saga di 007 ma senza toccare quei vertici. Ma Le Carré non si limitava al realismo: metteva a nudo i conflitti morali, il gioco di chiaroscuri, l’impossibilità di distinguere il bene dal male, contestualizzandoli però in un preciso quadro storico. Ne scopriva la valenza eterna e allo stesso tempo la qualità specifica e dunque unica che assumevano nella circoscritta epoca storica della guerra fredda. Se abbattuto il Muro Le Carré si è solo a tratti avvicinato alla qualità della sua fase migliore non è perché non ci siano più le guerre di spie o non esista più l’ambiguità morale ma perché, con la fine della guerra fredda, ne sono stati radicalmente modificati i connotati, hanno assunto forme diverse da quelle che lo scrittore aveva conosciuto, vissuto e poi raccontato.

NEI SUOI LIBRI MIGLIORI Le Carré trova un equilibrio perfetto tra quel compromesso morale che costringe a comportamenti ignobili e le circostanze storiche che lo innescano e ne determinano il corso. Non solo i libri di Smiley ma il capolavoro riconosciuto La spia che venne dal freddo, l’invece ingiustamente sottovalutato La Tamburina e il più autobiografico tra i romanzi di Le Carré, La spia perfetta, dell’86, che Philip Roth definiva «il miglior romanzo inglese del dopoguerra». Il primo, del 1963, è ambientato nella Berlino divisa dal Muro e Le Carré tornerà sulla vicenda, con un libro che ne è insieme prequel e sequel, dopo quasi mezzo secolo, nel suo penultimo romanzo, Un passato da spia. Il secondo si scosta dallo scenario europeo per un’escursione in quello mediorientale, nel conflitto israelo-palestinese. In entrambi l’autore mette in scena la tragedia dei sacrificati, un agente spedito a Berlino est, un’attrice idealista e manipolata, ma anche quella di chi senza cinismo e senza indulgere a menzogne sul proprio comportamento decide di sacrificarli.

Pochissimi libri sono stati altrettanto capaci di abbattere ogni distinzione tra letteratura e romanzi di genere. John Le Carré, che ha scritto quasi sempre storie di spie, non sarà ricordato come autore di romanzi di spionaggio.