A John Jeremiah Sullivan dobbiamo l’espressione forse più luminosa di quella saggistica dal forte taglio narrativo che ha occupato, negli ultimi due decenni, uno spazio sempre più importante all’interno della letteratura statunitense. Quattro anni fa, raccolta da Sellerio, è uscita una antologia di saggi, Americani, già pubblicati, in forme leggermente differenti, su alcune delle riviste più quotate della scena americana, da GQ a Harper’s Magazine, alla Paris Review. Scritti spesso su commissione e dettati da occasioni differenti, i testi di Americani erano tuttavia accomunati da una voce narrante deliberatamente invasiva e insieme determinata nel costruire una propria America, solo apparentemente marginale e stravagante, in realtà specchio autentico, nella sua stessa stranezza, di una società e di un paese.

Da una prospettiva decentrata
Che assistesse a un festival di rock cristiano, imbrancandosi con un gruppo di bifolchi del West Virginia, o alla tournée con la quale Axl Rose tornava a calcare le scene dopo anni di autoesilio; che si aggirasse nella New Orleans devastata dall’uragano Katrina o per le strade di Kingston, in cerca dell’ultimo membro dei mitici Wailers, Sullivan cercava sempre e deliberatamente una prospettiva «laterale» e decentrata, più attenta alle persone e alle loro motivazioni che alla dimostrazione di una tesi precostituita, scrivendo pagine di una comicità sfrenata e irresistibile ma senza mai assumere quella postura distaccata e superiore che sfocia nella satira o nel sarcasmo.

Una vena, quella di Sullivan, che ha trovato probabilmente il suo perfetto punto di sintesi in «Michael», memorabile saggio su Michael Jackson scritto all’indomani della sua morte, che nell’idiosincrasia della scrittura e nel rifiuto di prendere posizione sugli aspetti più controversi del personaggio attingeva a livelli di verità difficili da trovare nelle biografie ufficiali.
Dopo Americani, Sullivan ha inanellato una serie di ulteriori incursioni saggistiche, dedicate soprattutto alla scena musicale e letteraria, e ne ha approfittato per dichiarare con la massima sincerità quali siano stati i suoi modelli, primi fra tutti i grandi reportage di David Foster Wallace (oltre a Una cosa divertente che non farò mai più, la cartolina dagli Oscar del porno «Il figlio grosso e rosso» e la diretta dalla campagna elettorale di McCain in «Forza, Simba», entrambi raccolti in Considera l’aragosta), o i saggi di George Saunders, raccolti in Il megafono spento. In realtà, però, Americani era stato preceduto da un testo di nonfiction non meno importante e rivelatore, pubblicato negli Stati Uniti nel 2004 e ora meritoriamente proposto ai lettori italiani da 66thand2nd, con il titolo fedele Cavalli di razza: appunti del figlio di un giornalista sportivo.

Proprio dal titolo occorre partire per comprendere a fondo la natura ibrida dell’opera prima di Sullivan. Vi si intrecciano – in modo deliberato e immediatamente riconoscibile – tre elementi strutturali e tematici: i cavalli, in particolare i purosangue; la presenza di una soggettività «invadente», che controlla il testo attraverso la forma slabbrata, irregolare e digressiva dell’appunto, o del susseguirsi di annotazioni; il confronto con il padre, giornalista sportivo dallo stile stravagante e insolito, hippy ante litteram, grande bevitore, collezionista di barzellette sconce ed esilaranti. Ed è effettivamente attorno a questi tre elementi che Sullivan costruisce la sua partitura.

avalli di razza parte come un memoir sul padre e sulla sua morte prematura; attraverso i memorabili articoli che Mike Sullivan, detto Sully, dedicò al Kentucky Derby del 1973 e al trionfo di Secretariat – purosangue così veloce da poter rimanere in fondo al gruppo fin quasi all’ultima curva, per poi polverizzare tutti gli avversari in poche centinaia di metri – si sposta di peso nel mondo dei cavalli, raccontandone la storia, l’iconografia, la letteratura, in pagine di ammirevole erudizione; passa infine a illustrare nei dettagli l’industria che ruota intorno alle corse, dalla selezione degli esemplari migliori attraverso la genealogia e l’esame diretto ai metodi di allenamento.
I cavalli sono, per certi aspetti, il centro del libro, che nasce quindi da un paradosso, ben chiaro prima di tutto all’autore: quello di costruire un progetto narrativo a partire da quanto di meno narrativo esista. Come spiega Sullivan prima di lanciarsi in una descrizione di alcuni dei più noti allevatori di cavalli del Kentucky, «il mondo delle corse ha un disperato bisogno di storie umane invece che equine, storie di qualsiasi tipo a cui possano attaccarsi i potenziali tifosi. Gran parte dell’America si sintonizza quando, per esempio, Sammy Sosa sta per superare il record dei fuoricampo, ma quando il nostro Sammy Sosa ha quattro zampe, non parla, e a quanto pare non ha alcuna idea del perché tutti si stiano scaldando così tanto, è più difficile generare una narrazione.»

Analoghi problemi, però, si presentano all’atto di ricostruire, tramite la forma del memoir, la figura ingombrante e poderosa del padre. Subito dopo aver ammesso che, dopo la morte di Sully, «anche i dettagli più insignificanti delle sue stranezze hanno assunto un’aura luminosa», Sullivan dichiara senza mezzi termini: «Che farsa, che villania cercare di raccontare la storia di una vita. Un compito per il romanziere, per il quale la realtà – non la verità ma la realtà – ha un appiglio più debole. Uno sceglie una maschera, e può descrivere persino quella con pietosa inadeguatezza».
Cavalli di razza si configura allora come l’atto inaugurale di un percorso letterario che prende le mosse dal rifiuto di quanto c’è di più romanzesco e dalla ricerca di una narratività erratica, irregolare, a tratti sconcertante.

Una commistione di generi
Non si fa in tempo a convincersi di stare leggendo un memoir, ed ecco che ci si ritrova dentro una lunga sezione dedicata alla storia del Kentucky, e a come uno degli Stati più isolati e poveri d’America sia arrivato a ospitare un’industria fiorente ma interamente controllata da capitali esteri (inglesi, certo, ma ancor più giapponesi e arabi); si è appena fatta l’abitudine alla stupefacente e comica erudizione di Sullivan – capace, in uno dei passaggi più memorabili del libro, di esplorare le profonde contiguità tra le ricerche sulla genealogia dei purosangue e l’eugenetica del primo novecento, culminata nel Mein Kampf di Hitler – e lo si scopre grande narratore nella lunga digressione dedicata alla famosa asta dei purosangue del 10, 11 e 12 settembre 2001, tra i cui acquirenti c’erano principi sauditi imparentati con Osama bin Laden – interrotta ma non turbata dall’attentato alle Torri Gemelle. Si conclude la lettura storditi, carichi di informazioni e aneddoti spesso irresistibili e dettagli tecnici preziosi (ben resi in italiano da Gabriella Tonoli), ma soprattutto travolti da una sensazione di libertà e di ariosità che sembra appartenere sempre più di rado al mondo del romanzo e sempre più spesso a quello della nonfiction creativa.