«John Hurt è semplicemente il migliore attore del mondo», aveva detto David Lynch dopo averlo diretto, nel 1980, in The Elephant Man, nel ruolo di un uomo così deforme che nessuno dei lineamenti del suo viso era seppur vagamente riconoscibile. Ma per quella sua performance nascosta sotto il pesante make up da mostro, Hurt ricevette una nomination agli Oscar.

Il più asciuttamente  americano e trasformista dei grandi attori inglesi («se riesci a fingere abbastanza bene il pubblico ti crede») è morto venerdì a settantasette anni, a causa di un cancro al pancreas. Capace – con quel vivace, pungente, luccichio degli occhi e il sorriso malizioso- di rendere irresistibili anche i personaggi più immorali, untuosi e sgradevoli, Hurt iniziò la sua carriera come «da manuale», sui palcoscenici dell’Inghilterra anni sessanta, interpretando Pinter, Osborne e Tom Stoppard. Per poi però concentrarsi, sempre di più in produzioni televisive e per il cinema. Impossibile pensare all’orwelliano 1984, diretto nel 1984 da Michael Radford, senza la sua indelebile interpretazione di Winston Smith, il protagonista del grande romanzo distopico. Come altri colleghi inglesi ma con una verve più minimalista, meno camp, Hurt si lasciò spesso attirare dalla fantascienza e dal fantasy. A partire da Alien (1979) – dove è la prima vittima del dentuto alieno, che esplode a sorpresa dal suo torace.

Una scena cult della sua carriera, che lo stesso Hurt re-interpretò, riletta in chiave di satira, da Mel Brooks in Balle spaziali, mormorando mentre un mostriciattolo gli esce dal costato: «Oh no, un’altra volta!». Grande conoscitore di bacchette magiche in alcuni degli Harry Potter, dove interpretava Garrick Holivander, Hurt era il crudele dittatore di V for Vendetta (2005), «La contessa» in Cowgirl – Il nuovo sesso (1993), di Gus Van Sant, un archeologo in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo (2008) e l’esperto di fenomeni paranormali in Hellboy (2004), di Guillermo Del Toro. Frequentemente scritturato oltreocano, ricevette la sua prima nomination agli Academy Awards per il ruolo del carcerato tossico nella fetida prigione turca di Midnight Express (1979), di Oliver Stone.

Nato a Chesterfield, nel Derbyshire, Hurt era figlio di un sacerdote anglicano e di un’ ingegnere che – disse l’attore in un’intervista rilasciata al New York Times Magazine nel 1990 – ritenevano la recitazione: «Un passatempo troppo osè e populista», e che quindi lo mandarono ad una scuola per arti visive. Entrato anni dopo alla Royal Academy of Dramatic Art, fece il suo debutto al cinema con The Wild and the Willing, del 1962, dove interpretò la parte del protagonista in La forca può attendere (1969) di John Huston e quella di un uomo condannato e giustiziato erroneamente per i crimini del serial killer londinese John Christie nel bellissimo film di Richard Fleischer L’assassino di Rillington Place n.10 (1971).

Tornato al teatro negli anni novanta, portò sul palcoscenico di Dublino, poi a Londra, New York e infine al cinema (per la regia di Atom Egoyan, 2000) un’ indimenticabile versione del monologo beckettiano L’ultimo nastro di Krapp. Tra i suoi ultimi film, La talpa di Tomas Alfredson (2011), tratto da John Le Carre e, quest’anno, Jackie di Pablo Larrain, in cui è un sacerdote cattolico con cui l’ex first lady Natalie Portman si confida dopo l’omicidio di John Kennedy. Sposato e divorziato tre volte, ebbe una lunga relazione con la modella Marie-Lise Volpiere-Pierrot, mancata dopo una caduta da cavallo, nel 1983. Lascia la sua quarta moglie, l’attrice e pianista Anwen Rees-Myers, e due figli.