Un nuovo libro su Bach arriva al lettore italiano. In una bibliografia già tanto ricca che cosa potrà mai aggiungere, considerato, anche, che da anni in Italia fanno testo i due volumi di Frau Musika, l’opera di riferimento di Alberto Basso? Certo, da aggiungere c’è sempre qualcosa, per come l’enigma Bach si sottrae a ogni certezza che non sia quella della sua grande musica. La biografia, in particolare, regge su poco, quasi tutto ispirato da alcuni ritratti nei quali si vede un’espressione severa sotto parrucca. Però è congedata, quale offesa, la dizione di «papà Bach» che si rinfacciavano, decenni addietro, i musicisti militanti scorgendo in lui un volto del passato, per quanto magnifico.
Ma se il libro di deve a un importante direttore d’orchestra le cose cambiano. Innanzitutto perché è cosa rara che una persona con tale identità professionale trovi il modo di impegnarsi seriamente in un’impresa di ampia portata; poi perché il libro, che è ricostruzione accurata di un intero mondo, testimonia anche di un importante punto di vista. E allora, il libro è La musica nel castello del cielo Un ritratto di Johann Sebastian Bach, l’autore John Eliot Gardiner (traduzione di Luca Lamberti per i «Saggi» Einaudi, pp. 651, euro 38,00), lo spirito oscilla tra l’erudito e il saggistico, ovvero tra interesse per i dati anche di archivio e tono personale, a cominciare dal molto inglese capitolo primo, sul quale soprattutto ci si soffermerà, per il suo rilievo particolare. Troppo ampia impresa sarebbe entrare nel merito di un’analisi tanto partecipe di quella parte dell’opera di Bach che prevede una parte cantata: si dica che lo svolgimento del volume la tiene strettamente intrecciata ai contesti e allo sviluppo degli eventi personali, allo scopo di «rencontrer l’homme en sa création», come Gardiner scrive citando da un saggio francese, poi aggiungendo: «la personalità di Bach si è sviluppata e affinata come diretta conseguenza del suo pensiero musicale. I suoi modelli di comportamento reali erano secondari rispetto ad esso, e in alcuni casi possono essere interpretati come il risultato di uno squilibrio tra la sua vita di musicista e quella domestica quotidiana». Il rilievo cui si accennava si deve al rapporto tra il direttore di oggi e il musicista di ieri: è una via che dimostra come la vita accanto a un classico possa essere cosa viva, per niente passatista; e dimostra quanto certe scelte culturali siano determinate dalle circostanze biografiche e perfino dalle emozioni maturate nella prima età: possono poi essere rigettate o, accolte, raffinarsi, precisare il loro corso, diventare un’altra cosa.
«Sono cresciuto sotto lo sguardo del Cantor. Il celebre ritratto di Bach dipinto da Haussmann era stato consegnato ai miei genitori affinché lo tenessero al sicuro per la durata della guerra, e con orgoglio fu collocato sul pianerottolo al primo piano del vecchio mulino nel Dorset dove sono nato. Ogni notte, andando a letto, ho provato a evitarne lo sguardo severo». Non sappiamo se il mulino sia lo stesso, ma ancora oggi Gardiner vive in una fattoria del Dorset, in Inghilterra. Certo, l’essere nati da un padre che cantava sul trattore o a cavallo e in una famiglia che a tavola intonava la preghiera di ringraziamento prima dei pasti e riteneva una gioia poter riunirsi a fine settimana per cantare ancora è qualcosa di più di un segnale: «ancora oggi non riesco ad ascoltare arie come “Gelobet sei der Herr” (“Il Signore sia lodato”) o “Von der Welt verlang ich nichts” (“Non chiedo nulla al mondo”) senza un groppo in gola, senza sentire la voce di mia madre che, dall’interno del mulino, fluttuava attraverso il cortile». È una precisa emozione, un’indicazione pedagogica, un clima favorevole nel quale la musica corale senza accompagnamento diventa una passione: Déspres, Palestrina, Tallis, Purcell, Monteverdi, Schütz, Bach sono in quell’ambiente, diremmo, ciò che in altri ambienti è lo sgranare i nomi di una formazione sportiva, o in altri ancora stilare l’elenco dei poeti preferiti. Poi, dall’adolescenza in poi, la scoperta di alcuni lavori strumentali e gli incontri con alcuni insegnanti d’eccezione. Il grande tenore Wilfred Brown, ascoltando il quale mentre canta nella Passione secondo Giovanni, il giovanissimo violinista Gardiner dimentica di suonare rimanendo a bocca aperta. A Brown seguono, come insegnanti, tre donne. La prima è Imogen Holst, figlia di Gustav, l’autore dei Pianeti, e segretaria di Benjamin Britten: è lei a insegnare il peccato di «rallentare Bach», che deve invece danzare e cantare. Ma cantare Bach è certe volte arduo: il modo di articolare lo insegna a Gardiner la maestra di violino, Sybil Eaton. La terza insegnante, la più famosa di tutte, e anzi «la più importante insegnante di composizione vissuta nel XX secolo», è Nadia Boulanger, che costringe il giovane apprendista «per due anni a una rigida dieta a base di esercizi di armonia, contrappunto e solfeggio (l’efficace, ma particolarmente odioso, sistema francese di “allenamento all’orecchio”)», ma che è però «spietata nello sfidare qualunque preconcetto». Come trasformare questa teoria appresa con sofferenza in pratica musicale?
Già, negli anni a Cambridge da studente di spagnolo medievale e di arabo, Gardiner aveva pensato bene di dirigere Monteverdi, l’arduo Vespro della Beata Vergine. Ed era nata allora la formazione che Gardiner dirigerà per tutta la vita, il Monteverdi Choir, quasi un «anti-coro, in reazione all’eufonia educata e all’armoniosa miscela vocale che caratterizzavano il coro a cappella del King’s quando ero giovane, il cui mantra era “mai più di amabile”», che era «come aggiungere uno strato di cipria e un paio di nei all’arcigno ritratto del vecchio Cantor». Si dica che il Monteverdi Choir lì preso per mano, Gardiner lo porterà, e siamo ad anni relativamente recenti, all’esecuzione di Stravinsky, a The Rake’s Progress.
Le interpretazioni correnti di Bach negli anni sessanta non piacciono a Gardiner: il modello negativo è l’allora acclamatissimo Karl Richter: aggressivo, pesante, fragoroso. E intanto alla «“Boulangerie” la vita cominciava a farsi faticosa». Negli anni tra fine sessanta e fine settanta, al Montevedi Choir si affianca la Monteverdi Orchestra e «all’improvviso picchiammo contro un muro», a causa degli strumenti utilizzati, per esempio corde troppo potenti: per il Barocco invece occorre una sonorità diversa: è il percorso fatto da Christopher Hogwood e Trevor Pinnock sulle scie di esploratori quali Gustav Leonhardt, Nikolaus Harnoncourt e i fratelli Kuijken. Poi divenne una moda, nella quale il pensiero retrostante era svanito e tutto ciò che aveva entusiasmato spesso si faceva stanca, esteriore maniera (e anche nella generazione di Gardiner, si deve dire, certe manie filologiche portarono a un Bach non solo non rallentato, ma accelerato oltre misura: certe incisioni Archiv sono lì a testimoniarlo, una volta che ci si è accorti che non era il giradischi a funzionare male smarrendo il tempo giusto); perché, si sa, e Gardiner lo rimarca, «una sana dottrina non sempre si traduce in un corretto modo di fare musica». E infine, nel 1979, alla Bachwoche di Ansbach «fu bello contribuire, in maniera positiva, alla demistificazione dell’immagine di Bach proprio nella terra che gli aveva dato i natali». Fu il successo (intellettuale e anche commerciale), ma «c’era qualcosa di incompleto nell’idea che avevo su quale relazione vi fosse tra l’uomo Bach e la sua insondabile musica», e venne l’idea di rivisitare Bach in tutte le forme, per esempio la serie Bach Cantata Pilgrimage, ovvero «eseguire le cantate all’interno del calendario religioso di un singolo anno, nella loro esatta collocazione liturgica», dal momento che la fede luterana di Bach è anima della sua musica; aggiungendo il tentativo di replicare i ritmi di lavoro di Bach sui luoghi da lui percorsi: il «Pellegrinaggio delle Cantate di Bach», «un modo per risolvere l’enigma di come questa musica traboccante vitalità potesse essere sgorgata da sotto la parrucca di quel Cantor dallo sguardo impassibile, il cui ritratto aveva dominato la mia visione di lui come uomo sin da quando ero un ragazzino». Il lettore non potrà avere nemmeno l’ombra di un sospetto che lo sguardo su Bach derivato da una storia così, originata a suo modo dallo sguardo di Bach stesso, possa essere mai qualcosa di meno che necessario.