Uno, due, tre, quattro, cinque: applausi e di nuovo – a grande richiesta, «Il Gatto persiano perché vi piacciono le parole», – il primo della successione di brani che trasforma lo showcase su Il grande abarasse (Carosello), l’ultimo album di John De Leo in un mini-concerto; nemmeno sottotraccia «prova generale» di ciò che potrebbe essere per struttura e prassi esecutiva l’idea di tour che forse il cantante romagnolo ha in mente. Ma, la crisi d’oggi, asciuga brutalmente la fantasmagorica line-up musicale allestita per l’occasione: violini elettrici, piano e percussioni, fiati, chitarre elettriche e manipolazioni elettroniche, più la strabiliante voce del leader.

Comunque l’album è registrato in grande stile, con tra gli altri l’Orchestra Filarmonica di Bologna e guest-star il pianista Uri Caine e per cominciare e a sua insaputa, lo showcase avviene al Teatro Arsenale di via Cesare Correnti che fu il luogo a Milano in cui Demetrio Stratos presentò al pubblico, nel 1977, Metrodora e iniziò a provare le sue prime sperimentazioni vocali lontano dagli Area. Lo spunto di questa conversazione, svoltasi in due riprese, a teatro e poi al telefono, avviene proprio rammentando l’episodio di Stratos, artista al quale De Leo spesso, forse troppo, è stato accostato. Prima di ascoltare la risposta, preme aggiungere che Il grande abarasse è un vero capolavoro, un «pezzo unico» nella musica d’oggi: «Non sapevo assolutamente che Stratos avesse suonato qui. Mi sorprende sempre il paragone con lui; sono lusingato». «Certamente ho ascoltato i suoi dischi, ma se devo trovare qualcosa che ci accomuna ritengo che sia nelle sue prime cose, nella grande passione che aveva per il rock’n’roll. Qui trovo un’assoluta connessione tra le mie idee e le sue origini musicali».

Ascoltando Il grande abarasse pare aprirsi a ventaglio tutta una serie di ipotesi di ascolti, sia a ritroso con i tuoi precedenti lavori, sia spostati in un futuro prossimo venturo. La mezz’ora in più del «ghost album» che suona in logica continuità con le 10 tracce ufficiali del disco è forse la verifica di tali spostamenti temporali?

«Non posso che dire che tutte le analisi sono giuste. Faccio solitamente fatica a ridurre tutto in una sola operazione. Non mi piace studiare troppo. Ho pensato al disco ufficiale come ad un flusso moltiplicatore, mentre il ’ghost’ è immaginifico. Ed è chiaro che i due aspetti alla fine si incontrano. A proposito mi piacerebbe recuperare e ristampare autonomamente Zolfo (uno spettacolo del 1989 tratto da Sciascia, ndr). De Leo tiene a sottolineare come l’album suoni a suo avviso pop …: «Penso che sia un album pop che suona come un classico contemporaneo srotolando un linguaggio che vuol essere popolare. Ho parlato prima di origini musicali. Io non dimentico mai da dove provengo. Nella Mazurka del misantropo si sente molto la provenienza geografica dell’autore e allo stesso tempo il brano sembra suonare come i «golden slumbers» di McCartney che aveva bene a mente le bande del suo paese frequentate dal padre: «I Beatles fanno parte del mio bagaglio musicale. E la mia musica spesso seguendo traiettorie anche geografiche che mi appartengono cerca di ricreare suoni popolari, della gente».

L’opera – un concept – è strutturata con brani che sono altrettanti ingressi negli appartamenti di un «condominio». De Leo nomina Escher come riferimento figurativo, difende la complessità del suo progetto musicale citando Pasolini e William Baziotes, pittore della cerchia della Guggenheim; ma c’è pure una dimensione teatrale nel suo canto …: «Si è possibile, ma sfugge al controllo. È forse più un fatto interpretativo, non sono un attore. Ci mancherebbe. Sono convinto che sia il teatro uno di quegli aspetti di questa musica che ci piacciono meno. Vorrei, invece, che il canto venisse fuori in questo modo nuovo dalla vita, dalle viscere e non come un film, uno spettacolo. Forse è questo».

Curiosa la scelta la scelta del condominio, come residenza della musica: «Mi piace ’il condominio’. In un modo o nell’altro conferisce una certa italianità al lavoro. Credo, infatti, alla responsabilità dell’artista nel vivere il proprio territorio consapevolmente. Non volevo fare come si dice un’americanata. Non bisogna perdere la propria lingua, che pur con tutte le contaminazioni, conservi la propria italianità». Il condominio, quindi, come fatto politico: «Penso di sì, anche perché è abitato da tutti. E vi sono contemplate tutte le posizioni politiche e le deflagrazioni …».