Usa 2013. Una «grande muraglia» protegge tutto il confine meridionale degli Stati uniti. Un terremoto avvenuto nell’agosto del 2000, e attribuito alla collera divina, ha devastato la California e ridotto Los Angeles a un’isola decrepita piena di «dannati», al largo del Pacifico. Dopo la catastrofe, grazie a numerosi emendamenti della costituzione, il presidente viene investito di carica a vita e di autorità assoluta. Gli States diventano così una sorta di teocrazia militare, provvisti di polizia religiosa e fermamente decisi a impedire che «i terroristi del terzo mondo si impadroniscano di noi». Al momento dell’uscita, nel 1996, Escape from L. A. – Fuga da Los Angeles era un testo di affascinante fantapolitica, il sequel ufficiale di uno dei film più famosi di John Carpenter, 1997: Escape from New York – Fuga da New York, e quello ufficioso della riflessione politica iniziata da Carpenter con They Live-Essi vivono, un altro film dedicato (come questo) alla sua città del cuore, Los Angeles.

Kurt Russell in Fuga da «Los Angeles»

IN OCCASIONE della consegna della Carrosse d’Or a Carpenter che avverrà oggi, il programma della Quinzaine 2019 includerà una proiezione di The Thing – La cosa (1982) e un incontro con il pubblico, interpretazione carpenteriana del racconto di John W. Campbell Who Goes There?, e un omaggio all’adorato Howard Hawks, rimane probabilmente il titolo chiave di Carpenter, quello che ha messo fine all’ascesa dalla sua carriera hollywoodiana – il film della svolta, sotto molti punti di vista. Ma, negli ultimi anni, Fuga da Los Angeles è forse il suo lavoro a cui ho pensato più spesso, e non solo per via del muro di Donald Trump. «Credo che tutto il pianeta, non solo gli Stati uniti, si trovi a confronto con problemi molto difficili: il capitalismo e la democrazia, quello che sta succedendo nel mondo del lavoro… Se ne parla tutti i giorni nelle news, tutti sono seriamente preoccupati. Senza contare che, a volte, la Guerra civile americana combattuta più di un secolo fa sembra non sia mai finita. Stiamo attraversando un periodo duro», mi diceva Carpenter, in un’intervista concessa a questo giornale in occasione dell’uscita di Village of the Damned – Villaggio dei dannati, suggerendo già i temi di Fuga da Los Angeles, che aveva appena finito di scrivere. Nel 1995, Carpenter non aveva anticipato l’elezione del primo presidente Usa afroamericano (l’ottimismo non è il suo forte). Ma aveva previsto che i danni delle politiche fiscali di Reagan (oggetto della feroce satira di Essi vivono) non si sarebbero fermati con la fine della sua presidenza e che il clima si sarebbe violentemente ribellato all’uso e abuso che gli è stato inflitto (i fuochi e le alluvioni sono arrivati prima del terremoto a tormentare la California). Sublime (im)moralista Carpenter aveva scommesso che, nel 2013, i crimini sarebbero stati tutti crimini morali, grazie al trionfo della Christian Coalition.

Una scena da «The Thing – La cosa»

OGGI, il suo leader, Ralph Reed, è finito travolto da uno scandalo – gli obbiettivi della Coalizione possono però contare su una Corte suprema a maggioranza conservatrice che mette a repentaglio il diritto all’aborto quanto quello al voto. E, alla faccia delle previsioni più pessimistiche di Carpenter, l’ondata di moralismo e intransigenza (grazie a cui, nel suo film, gli irregolari vengono banditi nell’equivalente postatomico di un lebbrosario) ha contagiato anche la sinistra Usa, con l’ossessione delle identity poltitics. «Se vinciamo noi, perdete voi. Se vincete voi, perdiamo noi. È sempre la stessa storia», dice Iena Plissken alla fine di Fuga da Los Angeles.

E L’IMMAGINE di lui che soffia sul fiammifero, dopo aver «spento» per sempre l’intero globo è di un’attualità politica ed emotiva straordinaria. «Welcome to humanity!». C’è anche una ragione più profondamente legata al mezzo, che rende Fuga da Los Angeles, (l’ultima grossa produzione da studio di Carpenter – Ghosts of Mars – Fantasmi da Marte aveva un budget molto più piccolo) film che va radicalmente rivalutato.
Ed è quel suo essere così malinconicamente a cavallo tra la fine del cinema artigianale (tanto parte del Dna carpenteriano) e la pris au pouvoir completa del digitale che, se per certi versi ha liberato il genere fantastico, allo stesso tempo ne ha attenuato la forza contundente. La corsa in surf tra le macerie di una città e un cinema che non esiste più il momento più commovente di questo film crepuscolare e bellissimo.