È proprio al Tg3 che il ministro Angelino Alfano ricorre all’espressione più urticante: «Il tema è uno ed è che il fannullone deve poter essere licenziato». La stessa parola, fannullone, che usava l’allora ministro Brunetta quando si trattava di dare addosso agli statali – Alfano del resto era ministro anche in quel governo (Berlusconi). Ma lo scontro tra Renzi e il Nuovo centrodestra è già chiuso, la sfida nella maggioranza era più d’immagine che di sostanza. Perché se come dice la deputata di Scelta civica Irene Tinagli «ci saranno modifiche insignificanti al Jobs Act, un’inutile perdita di tempo», raggiunto l’accordo tra Renzi e una parte della minoranza del suo partito, per Alfano – che ad agosto fu il primo ad aprire il fuoco contro l’articolo 18 – l’importante era non passare per il perdente. E allora il ministro offre la sua versione dei fatti, pericolosamente vicina al vero: «Con il Pd si rischia di essere alle solite, l’articolo 18 deve andare via, si deve togliere realmente e dobbiamo restringere le fattispecie in cui interviene il giudice; l’obiettivo è dare i risarcimenti in automatico perché ogni volta che è intervenuta la magistratura nella materia del lavoro in Italia le cose si sono complicate». Si capisce che chi sta perdendo non è Alfano.

Ricevuta la notizia che governo e minoranza Pd, una parte della minoranza Pd, avevano trovato un’intesa per oliare l’ingranaggio del Jobs Act, al Nuovo centrodestra è bastato un mezzo pomeriggio di plateali proteste e minacce per ricomporre il puzzle. Il presidente della commissione ed ex ministro del lavoro, senatore Sacconi, ha impiegato poco a esser ricevuto al ministero dal successore Poletti. Ne è uscito rinfrancato: «Non ci saranno modifiche rispetto al testo del senato sui punti chiave dei voucher e del demansionamento – ha chiarito -, il governo mi ha dato rassicurazioni che non vuole attenuare la portata innovativa della riforma». E sul punto dolente dell’articolo 18 arriveranno emendamenti del governo «su limitatissime fattispecie di reintegro per i licenziamenti disciplinari, ci sarà un riferimento già nella legge delega ma saranno specificate nei decreti delegati». Così evapora uno dei successi annunciati dall’ala trattativista dei «bersaniani» (che giusto oggi si celebra a Milano con Bersani, Epifani e Damiano): non saranno le camere ma ancora l’esecutivo, nei decreti, ad avere l’ultima parola sui licenziamenti disciplinari. Come lo spiega il vice segretario del Pd Lorenzo Guerini: «Si tratterà di pochissimi interventi di modifica o addirittura di specificazione». Al Nazareno infatti non hanno gradito l’enfasi dei «compagni bersaniani», Renzi vuole l’accordo ma non vuole passare per quello che fa un passo indietro. Anche perché gli alleati-avversari di Forza Italia incalzano. «Il governo ha ceduto ancora una volta alla minoranza del Pd annullando completamente la tanto annunciata rivoluzione sul lavoro», sentenzia il capogruppo dei berlusconiani al senato, Romani.

Ancora scontro fra opposte propagande. Nella realtà il governo ha avuto bisogno di mezza giornata per tranquillizzare il Nuovo centrodestra su quel poco che ha concesso a una parte della minoranza Pd dopo settimane di trattativa. «Siamo ai dettagli, l’accordo sarà formalizzato in parlamento», dice Alfano. E lo di farà presto, perché da domani pomeriggio in commissione lavoro comincerà la maratona sul Jobs act. Cinque giorni di lavoro, non uno di più, per portare il testo in aula venerdì prossimo. Quanto al voto finale, è già stato fissato dalla conferenza dei capigruppo per mercoledì 26 novembre. Renzi ha ottenuto garanzie dal capogruppo del Pd Speranza, leader dei trattativisti, che i tempi saranno rispettati visto che la legge dovrà tornare (velocemente) al senato. Per il resto confida nella presidente Boldrini che dovrà fronteggiare l’ostruzionismo annunciato dei grillini e di Sel. Intanto il presidente della commissione lavoro Damiano – uno dei mediatori con Renzi – ha cominciato a disboscare gli emendamenti delle minoranza. Settantotto sono stati dichiarati inammissibili, tra i quali, denuncia Airaudo di Sel, quelli «contro la condotta sindacale dei datori di lavoro, per una normativa organica in materia di rappresentanza sindacale e per un piano straordinario di creazione di nuovo lavoro». Il Jobs act non si occupa di questo.