All’indomani dell’approvazione del Jobs Act alcuni autorevoli analisti si erano spinti a prevedere una “bolla lavoro”, cioè, una impennata dell’occupazione per effetto dei consistenti incentivi assegnati a chi assumeva col contratto a tutele crescenti. E siccome in attesa della nuova legge alcuni imprenditori avevano rinviato le assunzioni necessarie, quell’attesa non era infondata.

In quella stessa occasione il Presidente del Consiglio aveva pronunciato una frase che la dice lunga sulle sue intenzioni e sulla sua idea di politica e di economia. Aveva detto, rivolto agli imprenditori, che lui aveva concesso loro tutto quello che avevano chiesto e che, quindi, adesso toccava a loro mantenere le promesse di procedere a nuove assunzioni.

L’idea di politica che sta sotto quella frase era la politica come scambio: tu mi chiedi di poter avere la massima flessibilità della forza lavoro come condizione per investire e crescere, io lo faccio e adesso mi aspetto che tu faccia la tua parte. L’idea di economia è quella, forse connessa ad una certa concezione cattolica, che gli imprenditori sono animati da buone intenzioni e che se si da loro fiducia essi non esiteranno ad assumere. La prima idea non è nuova alla cultura centrista del nostro paese, la seconda è stata rinvigorita dai rapporti anche personali di Renzi col mondo della finanza e dell’impresa (ultima dimostrazione la pagina appello sul Corriere con l’invito ad andare avanti) e assomiglia molto a una idea di economia da libro Cuore che sembra prescindere dalle leggi della domanda e dell’offerta, della concorrenza e della competitività, leggi rese sempre più dure dalla globalizzazione dei mercati.

Sulla base di queste convinzioni e ipotesi nei mesi scorsi, mesi di collaudo della nuova legislazione del lavoro, ci si è affannati a cercare nei dati la conferma di quelle bislacche teorie e si è fatto di tutto per forzare i dati fino a toccare un vero e proprio stato di “euforia statistica” e a fornire dati tanto clamorosamente falsi da doverli rettificare e correggere come veri e propri errori (naturalmente se quell’errore l’avesse fatto l’Istat qualche poltrona sarebbe saltata o, secondo l’ultima moda, affiancata da un commissario).

In questo dibattito tutto politicizzato e strumentalizzato si è dimenticato che in effetti alcuni fattori, questi si capaci di influenzare l’andamento dell’economia, si sono verificati negli ultimi mesi. La svalutazione dell’euro, il crollo del prezzo del petrolio e le misure attivate dalla Bce col Quantitative Easing sono tre fattori straordinari, un colpo di fortuna imprevedibile, che avrebbero dovuto, secondo diverse stime, influire di qualche punto sulla crescita del Pil.

Adesso che sono passati un po’ di mesi si può cominciare a trarre un primo, seppur provvisorio, bilancio degli effetti dei fattori esogeni – i tre di cui abbiamo parlato – e di quelli endogeni attivati dal governo italiano.

Gli ultimi dati di due giorni fa – fonte Istat – segnalano 235 mila occupati in più rispetto a Luglio 2014 e 181 mila nel periodo Gennaio-Luglio. Se ci si limita agli ultimi quattro mesi nei quali hanno cominciato a manifestarsi gli effetti del Jobs Act l’aumento medio è di 110 mila occupati in più. Non c’è la bolla lavoro prevista, ma qualche bollicina è meglio di niente ed è giusto vederla e sperare che si espanda.

Naturalmente per capire meglio gli effetti distinti dei fattori esogeni e di quelli endogeni è necessario confrontare la dinamica della nostra economia con quella dei paesi europei. Pochi giorni fa sono stati resi noti i dati sul Pil e da essi emerge che l’incremento medio nei primi sei mesi è stato nell’Europa a 19 dell’1,1 %. In Italia siamo allo 0,3%. Questa non è una buona notizia. Significa che i fattori endogeni citati, che negli altri paesi hanno agito soprattutto sull’incremento dell’export oltre che sulla domanda interna, in Italia sono stati sostanzialmente ininfluenti. Significa che la nostra distanza dall’Europa aumenta invece di diminuire. Significa che il nostro apparato produttivo non riesce ancora ad utilizzare gli stimoli favorevoli di calo del prezzo del greggio e la svalutazione che per il nostro paese sono sempre stati una leva importante di ripresa economica.

Se poi si volesse ipotizzare che lo 0,3% di Pil sia interamente l’effetto sulla nostra economia di quei tre fattori significherebbe ammettere che i provvedimenti sul lavoro sono stati sostanzialmente inefficaci. Ma disquisire su questi decimali è improprio ed inutile e resta una constatazione amara: la somma di incentivi esterni e stimoli interni non rimette in moto l’economia italiana. A ben guardare anche l’economia europea non sembra godere di buona salute ed il modo in cui si stanno affrontando sia la crisi greca che l’esplosione del fenomeno migratorio, non sono estranei a queste difficoltà di crescita. Se già quando si cresce è difficile per chi sta meglio accettare di dover redistribuire quello che si possiede, figuriamoci quando non si cresce.

Ma la cruda realtà è questa: l’economia europea non cresce e proprio in Europa si stanno scaricando gli effetti delle politiche militari e di sfruttamento del terzo mondo e delle sue risorse.
Non si tratta né di crisi economica congiunturale, né di emergenza immigrazione. Si tratta di fenomeni nuovi e strutturali. Basta guardare come i nuovi migranti si pongono nei confronti dei nostri paesi: non più solo come richiedenti pietosi di ospitalità, ma come portatori di un loro diritto a spostarsi dove si può vivere, a raggiungere i loro parenti e amici, portatori dell’idea che il mondo è di tutti quelli che ci sono nati.

Insomma stagnazione economica e nuove migrazioni sono l’altra faccia della globalizzazione che noi abbiamo voluto e teorizzato.

Queste novità ci impongono scelte difficili, inedite che richiedono uno sguardo lungo. Ben oltre i piccoli ed aridi numeri degli equilibri di bilancio e delle regolette sull’austerità.

Che il governo non si inebri di queste bollicine di lavoro e che la sinistra, e soprattutto la nuova che vorremmo, si collochi all’altezza di questa nuova sfida epocale.

Senza questo grande salto a rischio sono la democrazia e la pace. E non è poco.