Una delle stime più attendibili sostiene che siano 3 milioni e 369 mila. Sono professionisti e lavoratori autonomi. Quelli iscritti alla gestione separata dell’Inps, sono 1 milione e 800 mila, all’incirca. Di solito, si usa questo dato per definire la quantità del «nuovo» lavoro autonomo, quello che Sergio Bologna ha definito «lavoratori autonomi di seconda generazione».

Sono persone che lavorano per la pubblica amministrazione e le imprese. Un breve elenco delle loro professioni può essere utile per dimostrare che non stiamo parlando di piccoli imprenditori, o di «partite Iva affluenti» come medici, avvocati o architetti senior, anche se i «giovani» trenta-quarantenni lavorano in condizioni da schiavi in queste categorie. Sono web designer, archeologi, traduttrici, grafici, pubblicitari, copywriter, giornalisti freelance, videomaker, formatori, consulenti aziendali, artigiani o attori. Nessuno di loro, com’è stato largamente annunciato, godrà degli 85 euro promessi in busta paga ai lavoratori dipendenti fino ai 25 mila euro lordi da Matteo Renzi. Eppure, come hanno dimostrato la Cgia di Mestre o l’Osservatorio dell’associazione XX maggio, questo segmento del quinto stato guadagna in media poco più di 700 euro.

Su di loro grava il peso sia dell’Irpef che dell’Irap. Perchè in Italia chi ha una partita Iva viene trattato come se fosse un’azienda individuale. Come una Fiat incarnata nello scheletro e nei nervi di chi guadagna con il suo computer, contratta una committenza (sempre più magra, per la crisi) con il pubblico o il privato. E in più, questi «freelance» – letteralmente, soldati di ventura in cerca di un ingaggio o di un reddito – devono pagare il 27,72% di contributi per una pensione che, con ogni probabilità, non vedranno mai.

La gestione separata dell’Inps, infatti, non assicura né la tutela della maternità, né un’assistenza in caso di malattie gravi, come ad esempio il cancro. Se questi autonomi si ammalano, devono fare da sé. Come in tutti gli altri casi di lavoro intermittente, precario, informale che prolifica in un paese dove il lavoro affonda in una zona grigia, sono privi di tutele sociali. E non possono fare da sé: perché la loro «azienda», cioè se stessi, non provvede a stipulare assicurazioni. I soldi non ci sono.

Questa realtà del nuovo lavoro, altamente precario e costitutivamente intermittente, non è stata calcolata nelle agevolazioni fiscali previste da Renzi.

Senza contare che non verranno contemplati nemmeno da quel «Jobs Act», e dalla sua «riforma» degli ammortizzatori sociali che riguarda solo 1 milione e 200 mila tra dipendenti in cassa integrazione in deroga e collaboratori a progetto. Nessuno di questi apolidi del quinto stato percepire la «Naspi» perché non hanno una busta paga, e quindi non possono dimostrare di avere lavorato almeno tre mesi.

La «svolta buona» di Renzi non rende solo infinito il precariato dei contratti a termine cancellando la «causalità» del contratto, come ieri ha scritto Piergiovanni Alleva su questo giornale, ma nega l’esistenza di un mondo che dovrebbe interessare uno come Renzi, se non per convinzione, almeno per appartenenza generazionale.

Niente di tutto questo, come ha denunciato ieri la presidente dell’Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato, Anna Soru: «Si interviene solo per i dipendenti, perché, come il sindacato si arroga il diritto di rappresentarci, gli autonomi sono tutti evasori. Un’etichetta applicata sommariamente a tutti gli autonomi, dimostrando di non aver compreso il nuovo lavoro autonomo è composto da professionisti che non hanno nessuna possibilità di evasione».

L’allarme lanciato da Acta ha funzionato, sui social network è montata l’opposizione, ieri i «quintari» erano in Tv, in radio, ovunque. Alla maggioranza delle «piccole intese» che regge l’impresa renziana ha preso un colpo. Il desiderio del premier di non irretire la Cgil che aveva annunciato uno sciopero generale per chiedere il taglio dell’Irpef, e non dell’Irap, ha cancellato l’interesse per un mondo corteggiato dai berlusconiani (che hanno in mente la vecchia immagine del «popolo delle partite Iva», tutti imprenditori rampanti).

Angelino Alfano (Ncd) ha cercato di riparare annunciando il taglio dell’Irpef per le partite iva individuali con un reddito sotto la soglia prevista, creando un’aliquota fissa del 10%, con la possibilità di forti semplificazioni sul piano delle procedure fiscali. Una soluzione che non piace a Enrico Zanetti (Scelta Civica), sottosegretario all’Economia, che invece propone il taglio dell’Irpef solo alle partite Iva equiparabili ai parasubordinati con 25 mila euro lordi. L’ipotesi del montiano è stata respinta da Soru: «Ci equiparano al lavoro dipendente». Cesare Damiano (Pd), presidente della commissione lavoro alla Camera, ha rivendicato il blocco l’aumento dell’aliquota Inps fino al 33% imposta da Monti e chiede di riportarla al 24% come per gli altri autonomi. Damiano ritiene necessario includere anche loro nella riforma degli ammortizzatori sociali.