«Questo provvedimento non l’ho votato a ottobre, non potrò votarlo a dicembre». Nell’aula di palazzo Madama la senatrice Lucrezia Ricchiuti annuncia il suo no al jobs. E’ il primo no che arriva dal Pd ma non ce ne saranno molti altri. Corradino Mineo, altro civatiano che già a ottobre non ha partecipato al voto,  ci vuole pensare ancora 24 ore. Ma confida che il jobs act è partito al senato con un voto di fiducia e ora qui con un voto di fiducia, insomma i senatori non devono toccare palla «e questo è veramente troppo, non credo che lo voterò». Altri sette colleghi avevano chiesto, con tanto di documento, che quello del senato non fosse solo un passaggio formale.

Sono Erica D’Adda, Federico Fornaro, Maria Grazia Gatti, Cecilia Guerra, Patrizia Manassero, Carlo Pegorer e Walter Tocci (che al precedente voto aveva votato sì alla fiducia ma subito aveva rassegnato le dimissioni, poi respinte dall’aula). Ma la richiesta è inaccettabile per il governo che  ha concesso qualche ritocco alla camera («ritocchi cosmetici», li hanno definiti nel giro stretto renziano) solo dopo aver ricevuto ampie rassicurazioni che il passaggio al senato sarebbe stato rapido e indolore. «Resta un dissenso netto e profondo», annuncia D’Adda. Ma difficile che qualcuno di questi sette senatori voti no alla fiducia e metta a rischio la tenuta del governo.

Perché di voto di fiducia si tratterà. Oggi la ministra Boschi lo comunicherà all’aula, e giovedì il jobs act sarà questione chiusa. Persino in anticipo rispetto allo sciopero generale del 12 dicembre. In attesa di un voto scontato – il resto della minoranza Pd ha spostato le ostilità sul fronte della legge elettorale – ieri la delega ha iniziato il suo breve ultimo miglio. Nell’indifferenza dell’aula che aspetta solo l’arrivo «della signorina Buonasera» (la ministra Boschi, ndr) come ha ghignato il 5stelle Endrizzi.

Respinte le pregiudiziali di costituzionalità,  la maggioranza affida il calcio d’avvio al senatore Pietro Ichino, uno dei padri del testo insieme al collega ex ministro berlusconiano Maurizio Sacconi. Al no di  Forza Italia, Lega, Fdi, M5S e Sel si alternano i sì delle forze di maggioranza della quale per l’ultima volta vanno in scena le loro opposte motivazioni: se per il dem Bruno Astorre «ci saranno più garanzie per tutti», per l’alfaniano Bruno Mancuso «finalmente si elimina l’art.18».

Che quest’ultima sia la verità innegabile nonostante gli sforzi lessicali del Pd renziano ma anche bersaniano, fuori dall’aula lo spiega anche Tiziano Treu, padre di tutte le precarizzazioni nostrane: «Migliaia di pagine a parlare dell’art. 18 è segno della nostra perversione intellettuale.  L’art.18 è un simbolo, ma di simboli si può morire». Comunque il simbolo è saltato. Inutile aggrapparsi al residuo reintegro sul posto di lavoro, spiega Ricchiuti: «Se è molto più sicuro licenziare per motivi economici, nessun datore licenzierà per motivi disciplinari. Quindi esiste l’istituto del reintegro per i licenziamenti disciplinari? Nella pratica no».