Più che una «retromarcia di Renzi», una vittoria di bandiera. Ma che assomiglia molto ad alzarne una bianca. Il giorno dopo l’accordo fra governo e Pd in commissione lavoro alla Camera, si scoprono meglio i contorni di un’intesa che – per esplicita ammissione dei contraenti della minoranza – è «solo verbale e ancora molto vaga». Il governo si è impegnato a fare propri alcuni emendamenti su due sole materie – articolo 18, controlli a distanza – ottenendo in cambio una blindatura sui tempi – se si va oltre fine mese ci sarà la fiducia – e sulla disciplina di partito – tutti i membri Pd in commissione voteranno all’unisono, sebbene molti di questi riconoscano «la pochezza delle modifiche ottenute».

Il risultato è quello di poter dire di avere mantenuto per i nuovi contratti a tutele crescenti la possibilità di reintegro in caso di licenziamento per motivi disciplinari. Al netto della quasi certezza che le imprese sosterranno sempre di aver licenziato per motivi economici – dunque senza possibilità di reintegro – le fattispecie saranno pochissime e comunque definite dal governo nella delega. Ancor più grave però sono le parole dello stesso responsabile Economia del Pd – e regista dell’accordo – Filippo Taddei che non esclude la cosiddetta «opzione aziendale»: in caso di reintegro deciso dal giudice, i decreti legislativi potranno comunque prevedere che l’azienda possa optare per un indennizzo più alto non riassumendo il lavoratore ingiustamente licenziato. Una vera beffa giuridica e politica.

Il secondo punto dell’accordo verbale riguarda il controllo a distanza. La norma che permetteva alle aziende di tenere sotto controllo i lavoratori dovrebbe essere modificata precisando che il controllo sarà sui soli impianti tecnologici e strumenti di lavoro. Il governo però si è opposto alla possibilità che gli accordi sulle modalità di videosorveglianza siano demandati a un accordo sindacale: le imprese saranno libere di controllare, senza limitazioni.

L’elenco di richieste di modifica da parte della minoranza Pd era molto più lungo. Un punto poco sottolineato ma importantissimo del testo della delega uscito dal Senato riguarda infatti l’estensione dei Voucher – i cosiddetti buoni lavoro – a tutti i settori produttivi. In astratto la norma permetterebbe che qualsiasi lavoratore non sia più pagato con lo stipendio, ma con forme diverse e sostitutive, ora limitate al settore agricolo e alla cura alla persona (le badanti). Altro argomento tabù e immodificabile per il governo è quello del demansionamento: «La concessione c’è già stata al Senato, con la previsione di mantenimento del salario», spiegano dal governo. Ci sono promesse per un «disboscamento dei contratti precari» e per un monitoraggio ravvicinato e puntuale della riforma.

Dal punto di vista dei tempi, ieri la commissione ha scremato i 550 emendamenti presentati, dichiarandone inammissibili 80. Da domenica si avvierà il voto su quelli rimasti e in quel momento il governo deciderà quali fare propri. Se la scelta, come pare, soddisferà la maggioranza dei – fino a ieri – recalcitranti Ncd e Scelta Civica, l’approvazione dovrebbe arrivare nei tempi stabiliti. Il testo uscito dalla commissione arriverà in aula il 26 per il voto finale e se ci fossero problemi il governo porrà la fiducia.

Convinti Sacconi e Ichino, per il governo anche la terza lettura al Senato e l’approvazione definitiva della delega dovrebbe arrivare in tempi spediti. Molto difficile però che i decreti legislativi siano presentati entro la fine dell’anno. Per mantenere almeno in parte l’ennesima promessa di Matteo Renzi – «il Jobs Act entrerà in vigore dal primo gennaio 2015» – è quasi certo che i decreti saranno retroattivi e che non attenderanno nemmeno il parere – non vincolante – delle commissioni Lavoro di Camera e Senato. Delle 6 deleghe previste, il ministro Poletti presenterà prima la numero 4 – «Riordino delle forme contrattuali» e cioè il contratto a tutele crescenti – mentre le altre saranno diluite nel tempo.

L’unica altra concessione alla minoranza Pd dovrebbe riguardare il capitolo ammortizzatori sociali: l’abolizione della cassa integrazione straordinaria per cessazione di attività porterebbe al licenziamento in tronco di decine di migliaia di lavoratori. Il governo ha promesso una dilazione. Sull’aumento della dotazione invece la partita è demandata alla legge di stabilità: ad oggi i fondi – 2 miliardi – non basterebbero certo ad allargare gli ammortizzatori ad alcun precario. Ma anche quella è solo una promessa.