Il termine per la presentazione degli emendamenti in commissione lavoro è fissato per il 12 novembre. Così il primo step del jobs act potrebbe essere votato entro la fine della prossima settimana. Poi approderebbe in aula per essere votato entro i primi di dicembre. Se andasse così, questo già sarebbe un primo dispetto di Matteo Renzi verso la minoranza Pd, che chiede di votare prima la legge di stabilità, dalla quale dipendono i numeri per esempio degli stanziamenti sugli ammortizzatori sociali, questione cruciale della riforma del lavoro e non ancora chiarita.

Ma il vero nodo che rischia di cambiare definitivamente fisionomia al Pd, lasciando sul campo parecchi feriti, è quella della fiducia. Anche se ieri Renzi da Brescia è stato ancora possibilista, che alla fine venga posta in Transatlantico è ormai dato per acquisito. Il punto dirimente è piuttosto su quale testo: da qualche giorno da Palazzo Chigi si irradia un tam tam secondo il quale Renzi non vuole accettare alcun emendamento al jobs act. La fiducia verrebbe posta sul testo del senato. In caso contrario, la legge dovrebbe tornare a Palazzo Madama, un’aula che presenta troppe incognite per il governo. Come altre volte, anche in questo caso il governo ha fretta. Perché, ha spiegato ieri mattina il presidente del consiglio, «poi vedremo le tecnicalità parlamentari, ma non c’è dubbio che dal primo gennaio 2015 dovranno esserci le regole nuove». Nella sua idea di democrazia parlamentare il dibattito in aula è un passaggio riconducibile al rango di «tecnicalità».

Eppure la sinistra Pd spera ancora di entrare in partita. In settimana l’area riformista ex bersaniana e quella della SinistraDem di Gianni Cuperlo (e Massimo D’Alema) si vedrà, insieme ad altre componenti ’disobbedienti ’ per concordare una linea di condotta unitaria. Forse ci sarà anche Pippo Civati. Che però ogni giorno è più severo con Renzi. Ieri sul suo blog ha scritto: «Se un segretario che fa anche il premier fa sapere di non voler cambiare il testo della delega sul lavoro, senza seguire, quindi, nemmeno il documento votato dalla direzione (a cui ho personalmente votato contro, ma il segretario pensavo fosse favorevole) non sono io ad avere problemi con il Pd, ma il suo stesso segretario». Anche l’area dei giovani turchi terrà una riunione, puntando su pochi emendamenti che non stravolgano la legge delega. Se Renzi accettasse qualche modifica, anche light, la già frastagliata sinistra Pd finirebbe per spaccarsi. Ma Renzi vuole mettere i dissidenti con le spalle al muro, convinto che votare contro il governo sarà un boomerang per chi lo farà.

Resta ottimista Cesare Damiano, presidente della commissione lavoro: «Io penso che sia debbano correggere sia la legge di stabilità sia il Jobs act». Nel primo, per esempio, «va adottata la decisione presa nella direzione del Pd di includere anche i licenziamenti disciplinari nella protezione dell’articolo 18. Questo è il minimo». Ma nella maggioranza c’è chi, come Gaetano Quagliariello, avverte di «non ledere la mediazione già raggiunta in seno al governo e alla maggioranza». Più esplicito Fabrizio Cicchitto: «Il Jobs act deve essere approvato alla camera così com’è passato al senato per marcare una novità che ci rende anche più forti in Europa per sostenere una svolta nella politica economica. Il resto sono battaglie di retroguardia che sta inutilmente dando una parte del Pd». Una parte alla quale fa appello invece Sel, che prepara 60 emendamenti ma è pronta anche a convergere su quelli della minoranza dem. Purché non si tratti di «maquillage», spiega Giorgio Airaudo.

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«Per esempio parlare di reintegro per i licenziamenti disciplinari è un escamotage: se due lavoratori si schiaffeggiano, in quale casistica siamo? No, le correzioni vanno fatte bene e a fondo. In commissione una maggioranza su queste posizioni c’è, a patto che la sinistra Pd non si rifugi dietro la disciplina. E la vera convergenza da cercare è quella con i lavoratori che sono scesi in piazza o che lo faranno in questi giorni. La sinistra Pd faccia una battaglia alla luce del sole».