La partita sul Jobs Act si gioca anche a Strasburgo, ma nessuno lo sa. La sopravvivenza del contratto a tutele crescenti (che come noto ha cancellato l’art.18 per i neoassunti) dipende infatti dalla contemporanea pendenza di due procedimenti frutto dell’attivismo giudiziario della Cgil. La questione è, come si suol dire, «tecnica», ma merita chiarirla perché decisiva per comprendere la portata della vicenda in corso.

Dopo aver ottenuto, nel luglio scorso, il rinvio alla Corte costituzionale dal Tribunale di Roma, la Confederazione di Corso d’Italia ha depositato un reclamo al Comitato europeo dei diritti sociali di Strasburgo, autorità deputata a valutare la compatibilità delle leggi nazionali con gli standard fissati dalla Carta Sociale Europea. Il valore delle decisioni di questo organismo è meramente politico, ma il sovrapporsi dei due procedimenti potrebbe rafforzare la prospettiva di un esito positivo della vicenda; intendendo ovviamente per esso la cancellazione delle norme contestate.

La Corte costituzionale si è già espressa in passato sul fondamento costituzionale della disciplina del licenziamento e questi precedenti non sono particolarmente confortanti. I giudici delle leggi hanno infatti mostrato di interpretare con ampi margini di elasticità i principi costituzionali posti a garanzia della stabilità dell’occupazione. Il Tribunale di Roma ha però oggi chiesto alla Consulta di valutare le regole introdotte dal Jobs Act anche alla luce degli obblighi di diritto internazionale, che vincolano il legislatore italiano in virtù dell’art. 117 della Costituzione. E qui entra in gioco la Carta Sociale. Può sorprendere i non addetti ai lavori, ma questa Convenzione di diritto internazionale prevede (nel suo art. 24) vincoli più stringenti ed espliciti in materia di licenziamento rispetto alla nostra Costituzione. Come ha ricordato recentemente il Comitato – censurando la normativa finlandese perché pone un tetto all’indennizzo per il lavoratore licenziato – le sanzioni in caso di licenziamento ingiustificato devono essere adeguate, effettive e fungere da deterrente rispetto a comportamenti illegittimi del datore. Tutte caratteristiche assenti nel debolissimo regime di tutela previsto dal Jobs Act, che nega al giudice la possibilità di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e fissa in due mensilità per ogni anno di anzianità l’indennizzo da corrispondergli.

Il Jobs Act potrebbe forse passare indenne dal vaglio di legittimità basato sui soli principi costituzionali, ma ben difficilmente può superare il test di compatibilità con gli standard di diritto internazionale. Ecco allora che il giudizio del Comitato di Strasburgo potrebbe diventare decisivo nel condurre i giudici nazionali ad una censura di incostituzionalità.

Il futuro del Jobs Act è appeso a questa doppia partita giocata a Roma e a Strasburgo. Molto dipenderà dai tempi delle decisioni dei due organismi. È evidente che un’eventuale censura da parte del Comitato, se arrivasse dopo un opposto giudizio della Consulta, sarebbe praticamente priva di effetti. Da ciò l’importanza che il procedimento a Strasburgo proceda più rapidamente che a Roma. Le decisioni di entrambi gli organismi sulla tempistica sono solo in apparenza procedurali, ma nei fatti hanno una potenziale valenza sostanziale. Si sa, non esiste una via giudiziaria al socialismo e neppure al moderato riformismo (anch’esso, giova ricordarlo, incompatibile con la libertà di licenziare). Forse per questo gli attori politici nazionali, assorbiti dalla campagna elettorale, ignorano ciò che avviene nelle chiuse stanze delle giurisdizioni superiori. Tuttavia meriterebbe un minimo di considerazione il fatto che quanti oggi difendono il Jobs Act davanti agli elettori, potrebbero domani doversi giustificare per aver violato non solo la Costituzione ma perfino gli obblighi che all’Italia sono imposti dal diritto internazionale.