Alla domanda «Che fare?» contro il Jobs act i sindacati si presentano oggi in parlamento divisi peggio dei rivoluzionari russi ad inizio novecento. L’audizione sui primi due decreti del Jobs act sarà al Senato – alla Camera è stata rinviata per le riunioni dei gruppi sull’elezione del presidente – inaugurerà quelle delle parti sociali sul nuovo contratto a tutele crescenti che rottama l’articolo 18 per i nuovi assunti e sulla sciarada di nuovi ammortizzatori in carenza di fondi.

Cgil, Cisl e Uil sono uniti solo nella richiesta di eliminare l’allargamento ai contratti collettivi – vero colpo di mano del consiglio dei ministri della vigilia di natale – delle nuove norme sui licenziamenti che renderanno possibile per le imprese non rispettare volontariamente i criteri previsti per stabilire chi licenziare e chi no – partendo dai carichi familiari – in caso di crisi, potendo disfarsi di chi vogliono al solo prezzo di un indennizzo comunque assai leggero – due mensilità per anno di anzianità con un minimo di 4 e un massimo di 24.

Per il resto le divisioni sono forti. Se la Cgil – che questa mattina sarà presente con Susanna Camusso – rigetta completamente la ratio del provvedimento – e oggi riunirà la sua consulta giuridica per fare il punto sui ricorsi possibili in Italia (codice civile, Costituzione) e in Europa (Carta dei diritti fondamentali) – la Uil invece puntava ad un documento comune che ambisse «alla riduzione del danno, unica logica possibile contro il governo – spiega il segretario confederale Guglielmo Loy – puntando a stralciare i licenziamenti collettivi e i lavoratori degli appalti, rimettere sanzioni conservative per i licenziamenti disciplinari e innalzare gli indennizzi per evitare che siano più bassi degli sgravi fiscali previsti nella Stabilità», che è invece saltato per le troppe diversità con le altre sigle. Per la Cisl, che non ha aderito allo sciopero generale del 12 dicembre e che sarà rappresentata da quel Gigi Petteni tra i più strenui fautori della linea soft con Renzi, a parte i licenziamenti collettivi, il Jobs act ha molte parti positive perché «il contratto a tutele crescenti è meglio della precarietà attuale e tutto sta appunto a quanto questo contratto assorbirà delle altre tipologie precarie ora esistenti».

Posizione opposta è quella della Fiom, che ieri si è riunita – a Corso Italia – per un seminario allargato ai segretari territoriali per preparare la campagna di primavera. L’idea di applicare l’odiato articolo 8 di Sacconi – che prevede come gli accordi aziendali possano derogare alle leggi – per attutire gli effetti del Jobs act è solo una delle frecce all’arco di Landini, che continua a ripetere di «non escludere nulla», di «essere pronto a tutto» e prepara l’attivo nazionale dei delegati per fine febbraio.

Come noto, le camere hanno 30 giorni – scadenza il 12 febbraio – per esprimere un parere consultivo al governo, che poi deciderà se tenerlo in considerazione o meno. Ieri le audizioni sono partite con il sottosegretario Teresa Bellanova che ha ribadito la richiesta di fare in fretta: «Entro la prossima settimana». Ma il presidente della commissione lavoro della Camera Cesare Damiano pone una condizione: «Faremo il possibile, ma si va spediti quando si trovano soluzioni». Lasciando intendere che un dietrofront del governo sui licenziamenti collettivi potrebbe essere il compromesso giusto. «Noi invece presenteremo un testo alternativo che punti alla riconquista dei diritti, ora semplicemente monetizzati», attacca Giorgio Airaudo.

Bellanova ha poi preso un impegno assai gravoso per il governo Renzi: «Gli altri decreti (semplificazione contratti, ammortizzatori) saranno presentati entro fine febbraio (nel consiglio dei ministri del 20, ndr)». Per quello sull’agenzia unica servirà invece attendere le riforme costituzionali: ancora non è chiaro se la competenza sulla formazione professionale rimarrà alle regioni, mentre per quello sulla conciliazione dei tempi di vita e tutela maternità servirà più tempo perché «lo vogliamo fare in modo condiviso», dichiara Bellanova, ammettendo dunque che i primi due decreti sono stati fatti in fretta, senza ascoltare nessuno. Nemmeno la minoranza dem.