Stasera stessa il governo metterà la fiducia sul Jobs Act, autorizzata ieri sera nella riunione del governo. Non è la scelta che Matteo Renzi avrebbe preferito. Non è la ricerca di una prova di forza a tutti i costi in stile Margaret Thatcher: è una scelta obbligata. Renzi non può concedere alla minoranza e ai sindacati neppure il poco che aveva deciso la direzione del Pd della settimana scorsa. Non lo reggerebbe l’ala destra della sua maggioranza e se, per non perdere i voti dell’Ncd, il presidente del consiglio e segretario del Pd si acconciasse a cancellare le scarne concessioni della direzione, allora sarebbe la minoranza del suo partito a far mancare i voti. A rischio non sarebbe la legge, che a quel punto passerebbe con l’appoggio di Forza Italia, ma la sorte stessa del governo. Un attimo dopo il voto, Renzi non potrebbe che salire al Colle ammettendo di non disporre più di una maggioranza politica.

La sola via d’uscita dal vicolo cieco è la fiducia, come era chiaro già da giorni. La minoranza Pd, certo, continua a protestare. Anche ieri Cuperlo ha ribadito il fermo no a una decisione destinata a strozzare ogni dibattito e altrettanto fanno, a maggior ragione, le opposizioni. Però, fuori dal gioco delle parti, a tutti è chiaro che altre soluzioni Renzi non ne ha e, anche se mai lo confesserebbero, è la strada preferita anche dai dissidenti. Possono ora sottrarsi al lacerante dilemma tra votare secondo coscienza, rischiando il loro futuro politico, o secondo disciplina di partito. Non a caso Enrico Morando, uno dei pasdaran della cancellazione dell’articolo 18, ricorda che lui non si è mai sognato di votare diversamente da come partito dettava, anche quando non concordava.

Qualcosa, in ogni caso, Renzi dovrà concedere, con un emendamento che il governo presenterà oggi. Di sostanzioso, nelle modifiche al testo varato dalla commissione, ci sarà ben poco. Certamente verrà previsto il reintegro in alcuni casi, giusto per salvare la faccia, ma con tali e tanti paletti da rendere la pietanza digeribile persino per Maurizio Sacconi. Qualche altro elemento minore, tra quelli partoriti dall’assemblea Pd, entrerà probabilmente nella nuova versione, ma resterà comunque una mano di vernice stinta solo sulla facciata. Anche perché qualsiasi concessione è subordinata alla presenza di coperture tutt’altro che certe, per non dire incertissime.

In teoria esiste la possibilità che qualche senatore del Pd sfidi persino il voto di fiducia. Sarebbero comunque troppo pochi per impensierire il governo. I più ottimisti vagheggiano un paio di defezioni, ma probabilmente persino quello è un conto esagerato. Palazzo Chigi e la presidenza del gruppo al Senato scommettono che di no alla fiducia, dai banchi del partito liquido, non ne arriverà nemmeno uno e che quei due o tre “duri” decisi a non cedere si spingeranno tutt’al più sino a non partecipare alla votazione, essendo l’astensione, al senato, equivalente al voto contrario. «Con la fiducia conseguenze politiche», vaticina Stefano Fassina affidandosi al solito twitter. Mezzo particolarmente utile perché messaggi obbligatoriamente concisi dispensano dallo spiegare a quale conseguenza il cinguettante di turno alluda. In realtà la sola «conseguenza» di un certo peso e per Renzi nonostante tutto temibile sarebbe una scissione. Eventualità che non pare però dietro l’angolo. E neppure all’orizzonte.

Forte di un’approvazione che si può tranquillamente dare per scontata, Renzi arriverà mercoledì al primo confronto con gli ossi realmente duri, che non abitano nei palazzi romani ma a Bruxelles e Berlino. Lì, invece, il felice esito della missione non è affatto certo, e comunque non dipende dalla sorte dell’articolo 18. Ma la mano più dura, quella per convincere gli italiani spauriti a tirare fuori il portafogli, quella almeno Renzi ha già deciso come giocarla. Il mezzo Tfr in busta paga nel 2015 arriverà, checché ne dicano gli industriali. Su base volontaria, quasi certamente, ma ci sarà. Su questo il presidente del consiglio è irremovibile.

Ora si tratta solo di convincere le banche a prestare alle aziende i fondi necessari con un tasso d’interesse sopportabile. Missione difficile, non impossibile. Purché l’Inps, cioè lo Stato, si offra come garante della restituzione.