Il Jobs act e il decreto Dignità – che non l’ha modificato – sono incostituzionali perché vietano ai giudici del lavoro di stabilire una giusta indennità in caso di licenziamento ingiustificato. Viene così a cadere buona parte dell’architrave della riforma renziana: il contratto a tutele crescenti. Quello che ha sostituito il contratto a tempo indeterminato, quello senza articolo 18. Quello che di «tutele crescenti» aveva solo l’indennità di licenziamento: misere mensilità per anno di anzianità sul posto di lavoro perso.
Dopo il dispositivo del 26 settembre, ieri è arrivata la sentenza. Nelle 44 pagine i giudici della Corte Costituzionale spiegano che l’indennità che spetta al lavoratore ingiustamente licenziato non si può ancorare solo all’anzianità di servizio. Prevedere «una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità dei singoli casi», contrasta con il principio di uguaglianza.
Per questo la Consulta ha cancellato una norma del Decreto dignità, quella appunto ereditata dalla disciplina del Job act – articolo 3, comma 1 del decreto legislativo 23 del 2015 – che lega solo all’anzianità di servizio la determinazione dell’indennità. Il decreto Dignità si è limitato a innalzare la misura minima e massima dell’indennità: da 4 a 6 mensilità per il limite minimo e da 24 a 36 quello massimo.
Nella sentenza 194 depositata ieri, e di cui è relatrice il giudice costituzionale Silvana Sciarra (la stessa che fu messa in minoranza sulla legittimità del referendum Cgil che chiedeva il ripristino dell’articolo 18), si spiega che il meccanismo di quantificazione (pari a due mensilità dell’ultima retribuzione per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio) rende l’indennità «rigida» e «uniforme» per tutti i lavoratori, così da farle assumere i connotati di una liquidazione «forfetizzata e standardizzata» del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
«Il forte coinvolgimento della persona umana qualifica il diritto al lavoro come diritto fondamentale» con «specifiche tutele», scrive ancora la Corte che vede un vulnus anche agli articoli 4, 35, 76 e 117 della Costituzione, in relazione all’articolo 24 della Carta sociale europea che prevede «il diritto dei lavoratori, licenziati senza un valido motivo, a un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Pertanto, il giudice, nell’esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (4, ora 6 mensilità) e massimo (24, ora 36 mensilità), dovrà tener conto non solo dell’anzianità, ma anche dei criteri «desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)».
Soddisfazione per la sentenza arriva da parte della Cgil – si è arrivati alla Consulta per il caso sollevato dalla Filcams Roma per una lavoratrice (Federica Santoro) di un’azienda di catering di Roma (la Settimo Senso Srl) licenziata «per giustificato motivo oggettivo» indennizato con le 4 mensilità minime. «Una decisione positiva, un segnale importante per la tutela dei lavoratori», commenta la segretaria confederale della Cgil Tania Scacchetti. «La sentenza segna uno snodo fondamentale nella nostra battaglia per il raggiungimento degli obiettivi tracciati nella “Carta dei diritti universali del lavoro”: ora non si può più rimandare una discussione sull’allargamento della tutela dell’articolo 18».