Tutto comincia con delle vecchie bobine, i ricordi di un viaggio: un gruppo di persone eleganti si avventura tra le Guardie Rosse, sorridono, si scambiano saluti, fissano l’obiettivo quasi per gioco. Eppure questi fotogrammi hanno qualcosa di speciale, a cominciare dall’anno in cui sono stati realizzati, 1966, la Cina stava vivendo la Rivoluzione culturale e non era così evidente che dei turisti occidentali potessero entrarvi liberamente. Specie se poi, come in questo caso, non facevano parte della delegazione di un qualche partito comunista dell’ovest e anzi la loro appartenenza li spingeva piuttosto nella direzione contraria.

A riprendere il gruppo c’è la mamma di João Moreira Salles, una signora dell’alta borghesia brasiliana che avversava le idee rivoluzionarie al punto che loro, quando a Parigi dove si erano trasferiti dopo il colpo di stato militare in Brasile era cominciato il Maggio 68, avevano deciso di tornare a casa.

A partire da quelle immagini all’apparenza «neutre» Salles costruisce No intenso agora, che dopo l’anteprima alla scorsa Berlinale (era in Panorama Dokumenta), è in concorso al festival Cinéma du Réel.

Dalla Cina del 1966, si arriva alle immagini del1968: la Francia, Praga, il Brasile, Salles che è anche la voce narrante, ne cerca lo stesso scarto che coglie in quelle della madre, la malinconia dietro la gioia, le sconfitte nell’entusiasmo collettivo di un momento, l’intensità di un «adesso» che contiene già il suo declino nel «futuro».

Era davvero annunciato? Era davvero impossibile? Nei visi dei ragazzi e in quelli degli allora giovani leader come Daniel Cohn Bendit cosa si coglie di quella generazione? Ci sono estratti di film come Le Joli Mai di Chris Marker e Mourir a 30 ans di Romain Goupil. Una ragazza prova a calmare una madre inquieta perché il figlio non è tornato a casa. Ma dopo le grandi manifestazioni e gli appelli di De Gaulle la fine appare netta sul volto dell’operaia costretta a scegliere se rientrare in fabbrica o essere licenziata e nel dolore di una quotidianità in cui non può essere come prima ma che sembra invece imporre la stessa logica.

A Praga l’entusiasmo di una Primavera viene stroncato da carri armati sovietici. In Brasile un ragazzo è ucciso in una manifestazione.

Le divisioni di classe sono qualcosa che caratterizza persino la postura delle persone in strada: servo e padrone. In questo conflitto si colloca lo sguardo di Salles, che tra i bordi di quelle immagini cerca di cogliere le sfumature della Storia, oltre le letture della posterità che ne cercano un profitto secondo la tesi da dimostrare.

Ne parliamo con Salles in un piccolo caffè parigino, i tempi stretti dallo sciopero al Pompidou che ha costretto a riprogrammare ancora una volta gli orari, e alla proiezione ci saranno anche alcuni dei registi dei film utilizzati nel suo.

31VIS1JOAMOREIRASALLES

Cominciamo da una curiosità. Come è riuscito il gruppo con cui viaggiava sua madre a entrare in Cina in quel momento?

Non l’ho mai saputo di preciso, quando ho ritrovato quei filmati i miei genitori erano già mancati. Il viaggio era stato organizzato da una rivista francese di arte, che lo faceva spesso, mettendo a disposizione una persona con ottime conoscenze dei luoghi, una specie di guida. Probabilmente era stato pianificato con molto anticipo, l’anno prima, così quando è iniziata la Rivoluzione culturale, visto che tutto era stato pagato, si è fatto lo stesso.

Credo che il gruppo con cui viaggiava mia madre sia stato l’ultimo a entrare in Cina. Era composto in modo molto strano vista la situazione perché non si trattava di studenti o di militanti ma direi dell’opposto.

Mia madre veniva dal Minas Gerais, uno stato molto conservatore e cattolico, insieme a lei c’erano banchieri, capitalisti, e quanto si trova davanti è all’opposto della sua educazione e della sua visione del mondo.

Eppure nel suo racconto del viaggio sembra molto toccata da quanto vede, da quella Cina nella fase forse più aspra di critica alla società borghese, in cui una persona come mia madre vede negato tutto ciò in cui crede, il suo posto nella società.

Che cosa ti ha portato da questi film privati alle immagini del Maggio Sessantotto?

Mi interessava indagare come l’entusiasmo si trasforma in tristezza quando qualcosa in cui si crede molto, che fonda la nostra stessa vita, viene messo in discussione. Quel sentimento che mi aveva colpito guardando le riprese di mia madre, e che sentivo anche nelle sue parole, lo ritrovavo negli archivi del 68.

All’epoca vivevamo a Parigi, mio padre era stato ministro del governo (il presidente era Joao Goulart, ndr) rovesciato dai militari così aveva deciso di lasciare il Brasile per trasferirsi con tutti noi a Parigi. Non che ci fosse una ragione concreta, non era un oppositore ma aveva comunque delle idee democratiche anche se era un uomo di affari, che non potevano accordarsi al regime. Eppure quando è iniziato il 68 siamo tornati in Brasile, la mia famiglia temeva che ci fosse la rivoluzione.

Ma questa distanza di una dimensione «privata» in che modo si ritrova in un’esperienza collettiva che ha avuto senz’altro molte contraddizioni ma ha anche messo profondamente in discussione la società del tempo.

La generazione del 68, i suoi leader almeno, si era prefissa alcuni obiettivi: mandare via De Gaulle, prendere il potere, inventare un’altra società. In questo hanno perso perché De Gaulle è rimasto al suo posto e la società capitalista, come ci dicono le lacrime dell’operaia francese alla fine, ha continuato a imporre le sue regole.

Nel maggio francese, per le strade di Parigi, convivono due aspetti: quanto accadeva era una rivoluzione e al tempo stesso anche un’illusione. Il potere che si era combattuto alla fine, come raccontano ancora le immagini d’archivio, era più forte di prima.

Questo non vuol dire sminuire l’importanza di quel momento, ciò che ha provocato, i movimenti per i diritti degli african american, le Black Panthers, la resistenza contro la guerra in Vietnam, per i diritti degli african american, le lotte operaie… È stato qualcosa di meraviglioso, di enorme, la spinta che i giovani cercavano ma se poi leggi le memorie su questo, a parte poche eccezioni, il sentimento che vi predomina è quello di una grande tristezza. Che tutto è finito e, come dice la ragazza francese davanti alla fabbrica: «Come si fa a tornare alla stessa vita di prima?».

Se ci spostiamo in Cecoslovacchia è la stessa cosa. All’inizio della Primavera sono tutti felici, hanno fiducia che si possa finalmente cambiare, poi al funerale di Jan Palac, la folla è silenziosa e dolente, sanno che tutto è finito forse per sempre. Non era il suo tempo ancora, dovranno passare altri vent’anni per arrivare alla caduta del Muro ma loro vivevano allora, in quel presente.

L’invasione sovietica di Praga segna la fine del 68, Cohn Bendit è contro l’Urss ma a un certo punto anche Fidel Castro che pure la condanna dice che in fondo non potevano fare altrimenti perché quel Paese voleva rompere i patti. Ciò non significa che la generazione del 68 non abbia avviato delle trasformazioni incredibili in tutti gli aspetti della società scompigliandone gli aspetti più rigidi che la organizzavano. Politicamente però non era quello che si erano prefissi, era una parte, qualcosa.

Così però si annulla ogni utopia di cambiamento.

No, perché è importante essere lì in quel momento e riuscire a trovare un compromesso tra il «grande»sogno e le «piccole» battaglie che sono ugualmente importanti per mettere in discussione quanto non funziona.

Ma non è lo stesso sentimento che univa le persone in piazza a Parigi o a Praga quei giorni, la cui perdita affiora nello stesso istante della gioia e della speranza.