Sono quasi 15 anni che non torno alla più grande esposizione d’arte contemporanea e, appena approdo a Giardini, subito mi torna alla mente che qui tutto è una vetrina. C’è il sole, sono tutti eleganti, mi fanno un po’ ridere ma so che presto mi adeguerò a loro, mi metterò in tiro, sarò anch’io parte dello spettacolo.
Sono stata concepita a Venezia, al Danieli, alla Biennale del ’68, quella della contestazione. Questo luogo, ogni volta che ci metto piede, qualcosa mi dona ma sempre, in cambio, qualcosa mi toglie. A 8 anni furono le 2 Holly Hobbie tanto amate, a 17 l’oggetto transizionale (ancora? sì ancora!), a 25 la perla dell’anello materno, a 35 il libro culto edizione introvabile… Stavolta cosa? Sto in guardia, Venezia, stavolta non mi coglierai impreparata.

Comincio il giro en passant, trangugio 2 prosecchini alle 4 del pomeriggio che, da astemia, mi salgono subito in testa. Mi guardo intorno, cose sgradevoli e cose piacevoli, nulla che colpisca il mio cuore né il mio cervello. Poi finalmente arrivo al padiglione degli Stati Uniti, unica artista invitata: Joan Jonas. Mi metto in riga attendendo pazientemente il mio turno. Entro e sono felice.

Api alveari bambini si disegnano a memoria su tele circolari posizionate davanti al viso su cui vengono proiettate altre immagini di api in una circolarità labirintica ourobotica ombelicale. Il pesce giurassico segna i contorni in bianco e nero di una bambina a cavallo di uno stallone nell’acqua, di un fiume? di un lago? dello stesso mare dove, da uno scoglio, Joan adulta si tuffa? Sovrapposizioni, dissolvenze, simultaneità, doppia esposizione che confonde la mente, fa ruotare gli occhi di qua e di là come un danzatore di katakali impazzito, un fantasma dalla maschera bianca vaga tra gli alberi, si affaccia a metà schermo, si riflette, sparisce, tutto nasce tutto muore tutto torna, uguale o diverso mentre le api rigurgitano il nettare che diverrà miele, overlapping Altmaniano prima e dopo Altman. I bambini giocano leggono vestiti di bianco indossano cappelli cilindrici di cartone assumono le sembianze di messaggeri della luna, su di loro, diventati monitor, scorrono pupazzi di cartapesta multicolori, piccoli cani, cerchi di balsa, la voce parla di memoria, di madri e di padri, di relazioni, di miti, di vita.

Un flusso di emozioni ricordi rimpianti voci silenzi bui dentro cui sprofondare onde perdersi e ritrovarsi correre avere il fiatone scalare cime sondare abissi sfondare mura abbracciare il mondo come Amma ricondurre tutto a casa senza limiti senza paure senza sbattere le palpebre così al volo fluttuando leggeri e pulsanti come lancette di un orologio che non si fermerà mai.

Ho guadagnato molto attraverso la visione del lavoro «They come to us without a word» di Joan Jonas. Sono arricchita, piena, consapevole, paga. Mi sento cambiata nell’aspetto tramite una mutazione involontaria e, forse, inevitabile. Che strano, che follia, che bello!
Ma, oddio, possibile che stavolta non ci sia un prezzo da pagare, che Joan abbia infranto il maleficio, che io sia finalmente libera di venire qui senza rinunciare a qualcosa di importante?  No, accidenti, ho capito, anche stavolta Venezia ha vinto. Si è presa la mia giovinezza.

Fabianasargentini@alice.it