Roma, 27 maggio 2013. Pesci sospesi dipinti con l’inchiostro azzurro su carta fatta a mano, api definite dal vermiglio, cani. Joan Jonas (New York City 1936, vive e lavora a New York; insegna al Massachusetts Institute of Technology – MIT) osserva con attenzione i suoi lavori, poi si concentra nel dare le ultime indicazioni per l’allestimento della sua seconda personale alla galleria Alessandra Bonomo (fino a settembre). Lo spazio viene trasformato con la grande installazione They see our sounds (2013), con i walldrawings tracciati a pastello sulla parete e le varie opere realizzate negli ultimi due anni, incluso il video Glacier che fa parte della performance Reanimation, ispirata ad un romanzo dello scrittore islandese Halldór Kiljan Laxness, presentata dall’artista a Documenta 13 nel 2012.

 

Pioniera della performance art Joan Jonas continua a rinnovare il proprio linguaggio. “Quando dalla scultura sono passata alla performance,” – ha scritto nel volume edito da Charta nel 2007 – “non mi sembrava fosse un gran cambiamento. Passare dal modo statico a quello performativo era il passaggio da un punto di vista all’altro. Naturalmente mi aveva ispirato l’atmosfera che si viveva a New York negli anni Sessanta, un momento ricchissimo di stimoli in cui s’infrangevano i confini tradizionali tra le forme e lo spettatore veniva spinto nello spazio dell’oggetto.”

 

Anche questi ultimi lavori in mostra vedono l’impiego del disegno, tecnica fondamentale della sua poetica. Quale è per lei la chiave di lettura di questo linguaggio?

 

I disegni sono solo immagini. Io non dico come bisogna leggerli. Però i disegni di questa installazione vengono da un video recente Glacier che è proiettato nella stanza accanto, che fa parte di un grande progetto che si chiama Reanimation. Il video è stato anche parte di un’installazione e durante una performance ho fatto dei disegni usando lo stesso video. Quasi tutti i disegni di questa mostra, tuttavia, sono stati realizzati autonomamente, anche se spesso faccio disegni durante le mie performance. Le performance, che ora faccio un po’ meno, cominciano ad essere un punto di partenza per altri progetti.

 

Gli animali – farfalle, serpenti, pesci, cani (anche il suo cane Zina)… – sono soggetti ricorrenti nel suo lavoro. Hanno implicazioni simboliche? Quale è in particolare la loro valenza?

 

Non ci sono significati né implicazioni simboliche. Non uso simboli. Un cane è un cane, un pesce è un pesce, una figura è una figura, un’ape è un’ape. Ma sono molto interessata alla natura, ecco perché la rappresento nei disegni. Il cane è stato il primo animale ad essere presente nel mio lavoro e lo è stato per tanti anni. Ancora faccio disegni di cani, ma ora disegno anche altri animali come le api, i pesci e gli uccelli, insieme alla mia figura stessa ma in maniera molto astratta (Bodydrawings – n.d.R.). Uno dei temi fondamentali del mio lavoro è quello della fragilità della natura.

 

La mitologia e i suoi rituali sono elementi significativi nell’esplorazione delle dinamiche dell’io e del subconscio. Negli anni ’60 due esperienze sono state particolarmente significative per lei: quando ha visto per la prima volta la danza del serpente presso gli Hopi, indiani nativi americani e osservando da vicino certe dinamiche collettive vivendo per un anno in un piccolo villaggio dell’isola di Creta in Grecia. C’è una relazione tra queste due esperienze?

 

In entrambe le esperienze stavo esplorando i rituali di altre culture. Sono state molto importanti, ma non c’è alcun collegamento tra le due. Ho usato in modo metaforico la mia esperienza in Grecia nella mia prima performance, mentre non ho mai usato il rituale degli Hopi nel mio lavoro. Molto più tardi, nel 2010, mi sono relazionata a Aby Warburg e, anche se all’interno di questo lavoro c’è stata una referenza al rituale degli Hopi, non ho mai usato una rappresentazione.

 

Quando era studentessa di storia dell’arte al Mount Hoyoke College in Massachusetts, tra il 1954 e il ’58, decise che avrebbe continuato la sua formazione artistica come scultrice. All’epoca non era facile per una donna studiare questa disciplina, ma lei poté contare sul sostegno di suo padre. Quali sono stati i maggiori ostacoli che ha incontrato e quanto il loro superamento l’ha rafforzata nel farsi portavoce delle istanze femministe?

 

Nel 1958 quando mi sono laureata al Mount Hoyoke College mio padre mi ha incoraggiata ad andare alla scuola d’arte. E’ stato importante perché personalmente, può darsi che per le altre donne non sia stato così – ad esempio Agnes Martin già dipingeva i suoi quadri – non avevo il coraggio di diventare artista. Ma ero curiosa di continuare, di provarci. Con il femminismo non sono stata coinvolta fino alla fine degli anni ’60, primi anni ’70, quando ho cominciato a mostrare il mio lavoro. Questo è avvenuto nel ’68. Ci sono voluti dieci anni perché provassi a me stessa di essere un’artista, prima infatti mi consideravo più studente. All’epoca frequentavo la Columbia University Graduate School dove mi sono sentita molto sostenuta e ho avuto tempo per fare sperimentazione. Anche il viaggio in Grecia dove ho fatto le mie ricerche mi ha aiutata a trovare la mia dimensione.

 

L’identità femminile è un tema centrale di tutto il suo lavoro che affronta spesso ricorrendo all’autoritratto e all’uso dello specchio, come in Organic Honey’s Visual Telepathy (1972). Lo specchio ha un ruolo nella relazione tra lo spazio e il contesto, ma soprattutto nella percezione dello spazio da parte del pubblico. Cosa ha determinato la scelta di questo elemento?

 

Prima di tutto non faccio autoritratti. La mia immagine è rappresentata ma non si tratta di autoritratti. All’epoca avevo letto i racconti brevi di Borges in cui lui si parla spesso di specchi. Da questa lettura viene fuori l’utilizzo dello specchio da parte mia. Lo specchio non ha una funzione è solo un oggetto che mi interessava e l’ho usato nelle mie performance.

 

Nel suo uso del video sono stati incorporati il monitor e la proiezione. Quale è la relazione tra lo scarto temporale e la performance dal vivo?

 

Quando ho iniziato avevo un’attrezzatura molto semplice. Durante un viaggio in Giappone avevo comprato la mia prima videocamera, una Portapak e me l’ero portata a New York. Nel mio primo video (Organic Honey’s Visual Telepathy – n.d.R.) sono seduta su una sedia, oppure in piedi, ci sono sia la videocamera che il monitor. Io guardo le riprese nel monitor e c’è anche una proiezione e un registratore in questo sistema a circuito chiuso. Ogni cosa è collegata incluso il soggetto. Quando ho fatto questa prima performance con il video, l’idea era quella che ci fosse una videocamera che inquadrasse in diretta dettagli che erano proiettati nel monitor o sullo schermo o su entrambi. Così il pubblico poteva vedere la performance in diretta e anche i dettagli.

 

La sua carriera artistica attraversa mezzo secolo, in particolare è considerata una pioniera della performance e della videoarte. Oggi questi linguaggi sono entrati nei musei, nelle scuole d’arte e altrove, cosa è cambiato nel ruolo dell’artista da allora?

 

Non è cambiato nulla. (Ride). Semplicemente è stato mostrato di più e ovunque. E’ una cosa molto buona per i giovani artisti. Naturalmente tutto è cambiato e si è sviluppato. Gli artisti continuano a fare il loro lavoro.

 

Corpo, disegno, video, musica, scultura… nella mappatura del suo universo artistico che trae ispirazione tra gli altri da Borges, Aby Warburg, Jean Vigo, Ezra Pound, Eisenstein, Cocteau, Carroll, Dante e Giacometti c’è anche la fotografia: la utilizza come documentazione della performance o è un linguaggio indipendente?

 

Quando altre persone documentano le mie performance la fotografia è indipendente, quando invece sono io a fotografare le mie performance è il mio lavoro. Fin dall’inizio ho tradotto le mie performance in opere video autonome o installazioni e accanto ci sono spesso fotografie e disegni o video. Ma non tutto quello che faccio è agganciato alle performance, ultimamente sempre più spesso non lo è.

 

“Con l’età, l’elemento comico è diventato un importante ingrediente del mio lavoro”, ha affermato nel volume a cura di Anna Daneri e Cristina Natalicchio pubblicato da Charta nel 2007. In che modo?

 

Non potrei mai fare qualcosa di comico in maniera consapevole. Ma mi piace quando accadono momenti comici. Penso che quando si è più anziani è importante che questi momenti accadano più frequentemente.