Horror, love story, thriller psicologico e storia di formazione: nel suo Thelma -che uscirà nei cinema italiani il 21 giugno – il regista norvegese Joachim Trier si colloca all’incrocio fra moltissimi generi, ma tutto ruota intorno all’opposizione fra caos e controllo. La protagonista Thelma (Eili Harboe) è infatti una giovane ragazza che si è appena trasferita a Oslo per frequentare l’università, e contemporaneamente inizia la sua scoperta dell’amore e del desiderio per una compagna di corso: Anja. I genitori, estremamente religiosi, controllano però ogni sua mossa: la chiamano per sapere cosa mangia, leggono gli orari delle sue lezioni per sapere sempre dov’è, le chiedono conto delle nuove amicizie su Facebook.

E poi c’è il caos: un giorno mentre studia in biblioteca Thelma ha un attacco epilettico, e scopre di avere una forma molto rara di epilessia, le cui cause sono psicologiche. Ma c’è anche un diverso tipo di controllo, la scoperta che questa condizione – che la terrorizza – le consente anche di plasmare la realtà in base alle sue paure e ai suoi desideri più nascosti.Thelma è il quarto film del quarantaquattrenne Joachim Trier, che nel 2015 aveva presentato a Cannes, nella selezione di Un Certain Regard, Segreti di famiglia , un dramma familiare molto diverso da Thelma, ma in cui pure la famiglia, lungi dall’essere un luogo accogliente e protettivo, è all’origine di un male oscuro che incombe sulla vita dei personaggi.

 

In «Thelma» si incontrano molti temi e generi cinematografici. Ma qual è l’idea, o l’immagine, che ha dato inizio a tutto?
La prima cosa che io e Eskil Vogt (cosceneggiatore abituale del regista, ndr) abbiamo stabilito è che volevamo lavorare con l’horror, con l’ansietà della protagonista. Avevamo sentito la storia di una ragazza che aveva avuto un attacco epilettico mentre studiava all’università e abbiamo scritto la storia a partire da quella che immaginavamo essere l’ansia, il panico, legati alla perdita del controllo del proprio corpo. Un’altra cosa che ci è stata subito chiara è che volevamo raccontare una storia che fosse principalmente visiva, stravagante, sensuale, ricca di effetti cinematografici – insomma pensata specificamente per il grande schermo in un’epoca in cui tutti guardano Netflix o la tv. Così abbiamo cominciato a guardare tantissimi horror e thriller da cui trarre ispirazione: Rosemary’s Baby, Carrie sguardo di satana e anche molti altri film di Brian De Palma, Dario Argento, Hitchcock. Tutte grandi storie visive, guidate dallo spazio, dai movimenti di macchina, dalle emozioni che scaturiscono dalle immagini.

La sequenza di suspense all’Opera di Oslo è dunque un omaggio all’«Uomo che sapeva troppo»?
Scene come quella sono state scritte per apposite location norvegesi in cui volevo girare. Hitchcock aveva il Mount Rushmore, il palazzo delle Nazioni Unite a New York e altri luoghi iconici degli Stati uniti e dell’Inghilterra. Allo stesso modo io volevo lavorare con dei luoghi molto specifici della Norvegia, come appunto il Teatro dell’Opera di Oslo. L’amministrazione del teatro non era convinta di farmi girare, temevano che dopo aver visto la scena – in cui un gigantesco lampadario si muove e sembra poter cadere da un momento all’altro sul pubblico – la gente non ci sarebbe più andata. Gli ho dovuto spiegare che non stavo girando Lo squalo, dopo il quale tante persone non volevano più andare al mare d’estate…

Proprio le location, i paesaggi, sono fondamentali nel costruire l’atmosfera del film.
Il mio film precedente, Segreti di famiglia, era molto personale, ma girato a New York. E tante persone con cui ho parlato dell’idea di fare un horror mi dicevano che avrei dovuto girarlo in America, proprio perché è un film di genere. Ma una delle cose che mi interessava di più era lavorare con il paesaggio norvegese: la neve, il ghiaccio e i boschi contrapposti all’architettura ultramoderna di Oslo. In Norvegia infatti c’è una forte dicotomia tra la wilderness, la natura selvaggia, e lo spazio urbano: sembra quasi un paese diviso a metà. E questa divisione fra l’architettura della capitale e i paesaggi naturali sconfinati contribuisce all’energia del film, allo «scontro» fra natura e cultura e a quello fra controllo e caos che attraversa tutta la storia.

Riflette anche un’altra polarizzazione del film: tra un mondo antico – fatto di streghe, credenze religiose e possessioni demoniache – e quello contemporaneo e tecnologico in cui vive Thelma.
In fase di sceneggiatura mi sono messo a leggere molti testi sull’occulto, sulle streghe dell’antica mitologia europea, non solo norvegesi ma anche italiane. La maggior parte delle fiabe dell’antico folklore norvegese, tramandate oralmente, parlano delle streghe dei boschi come di creature sensuali, magiche, vitali. Ma queste storie sono state poi filtrate attraverso la mentalità protestante dell’Ottocento, in un contesto conservatore e borghese, e le streghe sono diventate un’incarnazione del male. Per cui nella nostra cultura siamo cresciuti con una stigmatizzazione del «selvaggio femminile». Nel mio film volevo ribaltare questa visione reazionaria, e portare lo spettatore a identificarsi con i poteri di questa giovane donna misteriosa. Una delle sfide più appassionanti è stata proprio reinventare una storia di streghe in un contesto moderno.

Sia in «Segreti di famiglia» che in «Thelma» la famiglia è il luogo di traumi profondi. E qui ci si spinge ancora oltre: è il nucleo familiare il vero pericolo.
Credo che i registi cerchino sempre di distanziarsi dal loro film precedente ma alla fine alcuni temi continuano a tornare. Nel caso di Thelma volevo fare un film che ricordasse Dario Argento, ma rivedendolo mi rendo conto che ruota principalmente anch’esso intorno al rapporto tra un padre e una figlia. Ma soprattutto credo che la storia di Thelma rifletta l’incessante e irraggiungibile negoziazione della libertà all’interno della famiglia. In Segreti di famiglia si trattava più che altro di un processo per arrivare a comprendersi a vicenda, mentre in quest’ultimo film la giovane protagonista deve trovare la sua strada. Ho cercato di rendere le figure dei genitori il più archetipiche possibili all’interno di una storia in cui si racconta l’orrore di una ragazza che non riesce a fuggire, simbolicamente e poi anche fisicamente, dalla propria casa.

Sta lavorando a un nuovo progetto?
Non so ancora se il mio prossimo lavoro sarà un film, ancora una volta girato in Norvegia, o una serie tv in inglese. Ma cerco sempre di battermi per il grande schermo, per la meravogliosa opportunità di far circolare i film europei nel continente: è molto importante che il nostro sistema di cooperazione e coproduzione non smetta mai di venire supportato dall’UE e dai singoli Paesi membri.