Nel 1980 la versione italiana della rivista Rolling Stones affidava a Matteo Guarnaccia il compito di realizzare un albo a fumetti per il decennale della morte di Jimi Hendrix. L’opera ricevette i complimenti di Gilbert Shelton, il «papà» dei Freak Brothers, e del «cannibale» Stefano Tamburini, ma negli anni 80 – commenta Guarnaccia – «parlare di musicisti psichedelici e controcultura era considerato un pericoloso segnale di passatismo». Diventato introvabile, quell’album a fumetti è tornato ora disponibile, ristampato da ComicOut con una prefazione di Eugenio Finardi, una introduzione di Omar Pedrini e una postfazione di Matteo Guarnaccia, raggiunto per una intervista via WhatsApp.

Hai mai visto di persona Jimi Hendrix?
No (ride) non l’ho mai visto anche perché avevo 14 anni. Lui ha suonato la sera qui a Milano al Piper nel ’68, e ovviamente a quei tempi non ti facevano uscire di casa la sera se avevi 14 anni, per cui mi sono perso il famoso concerto in cui tutti millantano di essere stati, un po’ come Bob Dylan al Folk Studio di Roma, tutti dicono che ci sono stati, ma in realtà pare fosse un posto che poteva contenere poche decine di persone.

Ma già sapevi della sua esistenza a 14 anni?
Assolutamente sì, ero già molto molto preso dalla sua musica. Tutto il mio interesse era per quello stile di vita che poi sarebbe evoluto verso la controcultura. Leggevo Whitman I Sing the Body Electric, la famosa poesia, e anche se ero molto piccolo mi ricordo che sentire la musica di Hendrix mi ha fatto pensare a un corpo elettrico, alla capacità di un essere umano a trasmettere elettricità, a trasmettere emozioni. Sino ad allora erano i Beatles che ci facevano un po’ da colonna sonora, molto semplice, molto facile e assolutamente gradevole, ma quando è arrivato Hendrix… lui addirittura cessa di essere un afroamericano e diventa qualcosa di assolutamente nuovo, è l’alieno, si presenta come un alieno che trasmette informazioni sulla rivoluzione che stava bruciando corpi e menti, un segno tangibile della metamorfosi antropologica che ci stava investendo.

Quanto tempo ci hai messo per disegnare l’album?
Almeno un mese lavorando in maniera molto costante, around the clock come dicono gli inglesi, di notte ascoltando la sua musica, sfogliando vecchie riviste underground che avevo accantonato, leggendo libri. Nella mia vita ho fatto poche storie a fumetti, anche se uso spesso le modalità del fumetto nelle mie opere, ma questo album è stato una necessità nel momento in cui tutte queste esperienze rischiavano di essere dimenticate. Hendrix stava diventando un po’ un santino, un defunto che non interessava più a nessuno se non ovviamente a chi era appassionato della sua musica. Negli anni 80 gli usi e i costumi erano molto cambiati.

Hai prima disegnato e poi aggiunto i fumetti?
No, prima ho fatto una sceneggiatura, cosa abbastanza strana per me, ho scritto prima il testo. Mi aveva colpito il fatto che molte sue canzoni raccontassero episodi della sua vita, per cui riascoltandole le sue parole mi sono servite un po’ come canovaccio. I dischi alla fine della sua carriera mi sono accorto che collimavano con un momento della storia degli afroamericani molto drammatico, le rivolte nei ghetti, i Black Panther…Hendrix non è stato un Paganini capace di utilizzare uno strumento come la chitarra elettrica in un modo molto stravagante, cosa che per carità è vera, ma è stato un grande megafono della vita antagonista in quegli anni, per tutto l’Occidente. Il fumetto inizia mostrando che la sua morte è stata avvertita in tutti i luoghi dell’«hippie trail», Ibiza, Katmandu, Kabul, Goa…quando è morto nel ’70 la notizia si è subito diffusa in tutti i centri nevralgici di questo luogo psicogeografico giovanile, molti lo hanno saputo magari non dai giornali ma da qualcuno che portava la notizia. Le pagine del fumetto parlano anche di questo, lui è stato parte integrante della controcultura.

Nel fumetto compare un investigatore privato, Worchester, che indaga sulla morte di Hendrix. Nome inglese ma è vestito e ha baffoni alla turca…
Volevo dargli un’aria un po’ vittoriana per raccontare questa passione che Hendrix e una generazione avevano per le culture altre. Hendrix stesso era un concentrato di culture, ha lanciato un nuovo modello di rappresentazione usando abiti, accessori e un linguaggio che frullava diverse culture, per cui veniva guardato anche con un certo sospetto dalla cultura black. Non era completamente black, non era un James Brown o un Michael Jackson, era qualcuno che aveva vissuto con il Living Theatre in Marocco, che era stato a Londra, ad Amsterdam, che aveva partecipato ai grandi raduni giovanili di quegli anni, a Wight, a Woodstock dove aveva usato la sua chitarra per lanciare un messaggio di protesta. La sua partecipazione a Woodstock è forse uno degli atti di antimilitarismo, un grido contro la guerra, tra i più potenti tra quelli che ci sono stati in quegli anni. Prendere l’inno nazionale americano, stravolgerlo, farlo diventare come se fosse il suono un po’ futurista dei bombardamenti americani che avvenivano in quel momento in Vietnam, penso che rimanga uno degli atti più clamorosi e rivoluzionari che un artista abbia fatto.

La sua morte ha suscitato molti sospetti, si è parlato di overdose, di una esecuzione targata Cia e altro ancora…
La questione resta aperta, dobbiamo accontentarci del fatto, come avveniva per i grandi esploratori vittoriani, che un esploratore è finito male, è stato mangiato dai cannibali o dai leoni o è caduto in una cascata mentre cercava le fonti del Nilo. Fa parte della sua vita, ha scelto coscientemente di muoversi in un territorio di frontiera. É un giallo che penso debba essere collegato al suo stile di vita, non tanto a complotti particolari. Sicuramente, come risulta dall’autopsia, non è morto di overdose. Il coroner nel suo certificato la definì una morte accidentale. Aveva una velocità di vita e una intensità che lo aveva portato a consumare non solo sostanze illegali ma anche farmaci e forse lo ha ucciso una quantità eccessiva di sonniferi.

Nel fumetto si parla di come Hendrix sia stato sfruttato in maniera ignobile dalle case discografiche…
Era un ragazzo, è morto giovanissimo, la sua carriera è durata pochissimi anni, dal 1966 al ’70, e come mostrano i suoi dischi era più interessato alla ricerca, alla musica, che alla vita da rockstar, a differenza di tanti altri musicisti dell’epoca che poi si sono adeguati a quella che era la vita di una rockstar con tutti gli agi, gli aerei, le limousine, gli inviti da parte di personaggi della cultura ufficiale etc. etc. Hendrix per fortuna, o per sua sfortuna, si è fermato in un momento in cui non ha avuto il tempo di abbandonare questo suo status, è sempre rimasto concentrato su una ricerca musicale molto profonda. Chi si è occupato dei suoi dischi, dei suoi concerti, della sua immagine ne ha tratto grane beneficio, lui si è sempre accontentato di vivere una vita non particolarmente legata allo stile delle rockstar.