«Elettrificare il mondo è la cosa più importante. La nostra musica è spirituale tanto quanto lo è andare in chiesa. Vogliamo che sia rispettata per questo. Il nostro compito è arrivare all’anima della gente per ripulirla. La religione è ciò che sei e ciò che fai. Quando salgo sul palco e canto, quella è la mia vita. La mia religione. Io sono la Religione Elettrica». No, non è il delirio di una mente fragile e paranoide. È un centrato programma di vita, arrivata allo scorcio finale, quando gocciolavano convulsi i suoi ultimissimi giorni sul pianeta, da parte di uno dei più grandi musicisti del secolo scorso. La Electric Church di James Marshall detto Jimi. Jimi Hendrix. Terapia choc, quella della Electric Church o, per usare le sue parole «violenza di seta», per andare poi a spiegare il contrario: la necessità della non violenza.
Sono parole che trovate in Zero, il libro che ha raccolto la miriade di appunti, testi, idee, disegni, che la mente vulcanica di Jimi Hendrix eruttava a fiotti nell’ultimo, convulso suo spicchio di vita, identificabile in almeno tutto il ’69, e quegli spiccioli di tempo ancora concessi prima del salto, via dalla «terza pietra che gravita attorno al sole», il 18 settembre 1970.

OLTRE IL TEMPO
Hendrix non si capisce senza il suo tempo, gli anni del Movement, del Vietnam, dei fiori nei capelli, dei diritti da conquistarsi manifestazione dopo manifestazione, manganellata dopo manganellata, libro dopo libro, sit-in dopo sit-in, Hendrix non si capisce se non si va contemporaneamente oltre il suo tempo che correva a perdifiato. Perché è destino solo di chi va davvero a incidere sulla storia di tutti gli altri di abitare il proprio tempo, avere le spalle ben coperte dalla storia, e al contempo saperlo trascendere, squarciando ove possibile e ove attuabile il velo di Maya del futuro.
Hendrix è stato anche un visionario pensatore che ha saputo far tesoro di quel po’ di cultura che è riuscito a mettersi assieme con la sua intelligenza radiante: lui che era un sottoproletario nero che, per i primi vent’anni almeno della sua vita, ha dovuto faticare a mettere insieme anche un pasto al giorno. E dunque la sua cultura se l’è fatta guardando le sue dita affusolate che sapevano correre per istinto ed esercizio sui tasti di una chitarra elettrica, ingegnandosi di manipolare il suono fino a trasformarlo in una docile matassa che poteva far le fusa o ruggire, e leggendo caoticamente ma scientemente ogni pezzo di carta stampata che gli capitava sotto gli occhi. Soprattutto fantascienza classica, quella poi della sua epoca, che parlava di altri mondi, di un’altra coscienza, di barriere da infrangere e oltrepassare non solo fisiche, ma anche mentali. Per arrivare a un mondo, qui sulla terra o forse oltre, che sarebbe dovuto assomigliare molto alla splendida Ecotopia californiana immaginata da Ernest Callebach, un lustro esatto dopo la scomparsa di Jimi Hendrix.
Non è facile immaginare quanto pensiero, quanta riflessione, quanta elaborazione teorica poi tradotta in gesto istantaneo bruciante, in teatro visionario, in prassi e azione sul palcoscenico ci sia dietro l’ultima, incandescente, caotica e contraddittoria fase creativa dell’opera di Jimi Hendrix: il performer, l’uomo che cavava suoni inauditi dalla sei corde, l’icona multifaccia unica del rock un po’ nero, un po’ nativo, un po’ hippie che sembrava un elegante alieno, tende a fagocitare il pensiero hendrixiano. Che era, s’è detto, sorprendentemente maturo, considerato poi che Hendrix non arrivò agli anni di Cristo, a proposito di «chiese che arrivano all’anima delle gente».

UN NUOVO LIBRO
La complessa questione del sistema di pensiero di Jimi Hendrix che sta dietro praticamente ogni gesto poi fatto sul palco, ogni accordo preso a prestito, spesso inconsapevolmente, dal raffinato mondo del jazz che gli scorreva attorno, e ogni testo che rivela una sorprendente maturità espressiva e poetica è affrontata in un nuovo libro, piccolo per mole, spesso per densità e riflessione critica realizzato da Alberto Rezzi per Mimesis.
Si intitola La filosofia di Jimi Hendrix/Viaggio al temine del mondo, esce nella bella serie Il caffè dei filosofi. Rezzi, che s’è già occupato di quanto pensiero sistematico sia dietro anche alle due apparentemente facili figure di chitarristi centrali nella storia del Novecento, Pat Martino ed Eric Clapton, con il testo su Hendrix in meno di centocinquanta pagine offre ben più d’uno spunto di riflessione. Non di agiografia mitizzante si tratta, comunque (di quella ce n’è già stata a dismisura), ma di seguire indizi e piste per il motivo esattamente contrario: restituire Hendrix a un viluppo di questioni filosofiche, esistenziali, musicali, naturalmente, che incrociano il suo brevissimo tragitto terreno, e la sostanziale indifferenza al tempo della sua opera. Il più importante dei quali, quello cui fa riferimento il sottotitolo «celiniano» del testo, viaggio al termine del mondo, va diretto a un filosofo nordamericano della seconda metà del Novecento occasionalmente ricordato, e spesso di laboriosa lettura. È Nelson Goodman, eversivo elaboratore di tesi costruttiviste. Le sue pubblicazioni, come Ways of Worldmaking, alla lettera «Modi per costruire mondi», reso con scarsa efficacia nella traduzione italiana per Laterza Vedere e costruire il mondo, esplorano il concetto di «molteplicità» dei mondi, intendendo come molteplicità e realtà fattuale di innumerevoli mondi anche quelli creati dall’arte, perché la differenza tra scienza e arte è solo «nel predominio di certe caratteristiche specifiche dei simboli, ed entrambe operano inventando, applicando, interpretando, trasformando, manipolando, con sistemi simbolici che si somigliano e si differenziano in modi specifici».

PARABOLE E RUMORI
Einstein e Hendrix, dunque, non sarebbero così lontani: semplicemente Hendrix analizzato con questa chiave, diventa nella sua bruciante parabola creativa da Are You Experienced a The Cry of Love un «costruttore di mondi» alternativi con l’uso cosciente, deliberato e via via più raffinato di linguaggi e codici simbolici corporei, musicali, poetico-metaforici, immaginativi, cromatici, sinestetici, e infine tecnici, applicati alle novità che via via emergevano per far suonare in modo «altro» la chitarra, e di cui Jimi era attentissimo osservatore e fruitore. A partire dall’uso ineguagliato del volume, e del controllo del feedback, il «rumore parassita» innescato dalle casse che Hendrix trasformò in una micidiale e plasmabile risorsa.
Un altro punto di riferimento filosofico agevolmente rintracciabile in testi e musica del mancino di Seattle «costruttore di mondi», secondo Rezzi, va ritrovato nella filosofia presocratica del filosofo siciliano Empedocle: dove il suo celebre frammento «Non c’è nascita alcuna di tutte le cose mortali, né alcuna fine di morte funesta, ma solo mescolanza e cambiamento di cose frammiste» si può applicare alla lettera al pulsante mondo di contaminazioni incrociate di Hendrix, e dove i suoi testi ci rimandano di continuo la pregnanza, nel sistema di pensiero hendrixiani, delle quattro “radici eterne” del divenire delle cose, acqua, terra aria fuoco», tenute in continuo movimento da Philia e Neikos, amicizia e amore da un lato, odio e discordia dall’altro. Gran bel modo per riassumere le spinte catastroficamente divergenti che attraversarono il mondo nella seconda metà dei Sessanta, e per tutto il decennio successivo. Un universo aperto, in continuo movimento, infinito e privo di centro (di nuovo: la «molteplicità dei mondi» a venire di Goodman): difficile non scorgere, secondo Rezzi, alcune delle conclusioni cui arrivò secoli dopo Giordano Bruno, per questo bruciato vivo dall’ortodossia cattolica. C’è ancor qualcos’altro, un riferimento al Bataille dell’erotismo, e al nodo inestricabile tra erotismo e sacrificio, nel plateale gesto di Hendrix che dà alle fiamme la chitarra al termine della celeberrima esibizione al Monterey Pop Festival, una riflessione necessaria, ancora, su quanto alcune delle avanguardie pittoriche del Novecento abbiano avuto in comune con la sinestetica visione della «musica colorata» di Jimi Hendrix, le sue vere e proprie tecniche di pittura sonora.

ACTION PAINTING
Rezzi avvicina in particolare le tecniche di action painting e di colatura dei colori di Jackson Pollock alle note di Hendrix. Là una sorta di «uso ritmico» del colore, steso lasciando fluire i movimenti impulsivi del corpo e lo sgocciolamento, qui il chitarrista che dice, del metodo compositivo col suo gruppo: «Non vogliamo nulla di scrupolosamente pianificato», e filtra e usa all’impronta linguaggi e simboli a lungo meditati, poi lasciati fluire nel crogiolo finale che dà vita a un «altro mondo».
Forse l’uomo Hendrix, il genio della chitarra che non ha visto i suoi trent’anni tutto questo lo ha tratto solo dalle sue letture fantascientifiche, innesco di pluralità di visioni, non certo dallo studio sistematico di filosofie che non ha mai conosciuto. Forse, però, conoscerle direttamente non l’avrebbe portato più in là di quanto le sue ali d’angelo elettrico non l’abbiano portato, per sempre.