Un uomo e una donna fanno sesso in una stanza fatiscente. Lei ha il naso bianco di coca e l’aria annoiata, poco sana, sofferente. Il telecomando, incastrato tra due cuscini, cambia canale a seconda dei loro movimenti. Fuori campo, una voce suadente, prende forma dallo schermo, il cui raggio di luce illumina il volto della ragazza -mentre, poco a poco, nel flusso delle parole che galleggiano verso di lei, si trasfigura in un sorriso. È l’inizio del terzo episodio di Kidding, la nuova serie con Jim Carrey in onda su Showtime – crudele, spericolato, buffo, triste e sorprendentemente profondo come i due che lo hanno preceduto.

Il ritorno di Carrey al piccolo schermo da cui la sua fisicità intenibile era esplosa nel 1990 con il programma comico a sketch di Keenen Ivory Wyans In Living Color è uno dei sublimi piaceri della nuova stagione tv. Affiancato dal Michel Gondry, con cui l’attore canadese aveva già collaborato in Se mi lasci ti cancello, e con il quale Carrey condivide una sensibilità capace di combinare poesia, feroce irriverenza, vulnerabilità, dolore e una dolcezza delle emozioni che è quasi filosofica, Kidding è modellato su un personaggio alla Mr. Rogers, autore di un amatissimo programma tv per bambini, prodotto da una rete pubblica, in onda a partire dal 1968 e durato fino al 2001. In Mr. Rogers Neighborhood, Mr. Rogers (nato Fred McFeely Rogers) si serviva dell’aiuto di pupazzi/marionetta per spiegare ai bambini, cui si rivolgeva direttamente, anche i concetti più difficili -leggendarie le sue puntate sull’omicidio di John Kennedy e sull’attentato alle torri gemelle. Anche Jeff Piccirillo (Carrey), in arte Mr. Pickles, si serve di pupazzi nel suo famosissimo show. E non solo per articolare concetti difficili: come Mel Gibson nel film di Jodie Foster Mr. Beaver, i pupazzi colorati e multiformi creati da sua sorella (Catherine Keener) sono spesso l’unico veicolo con cui questo adulto coi capelli tagliati a scodella, il volto devastato dal dolore e lo sguardo mite, riesce ad esprimere le proprie emozioni.

Quando lo incontriamo, Jeff ha perso da poco uno dei suoi due gemelli in un incidente automobilistico. La tragedia ha spaccato la famiglia -con il fratellino sopravvissuto che insegue la personalità più dark di quello scomparso e sua moglie che si fa succhiare le dita dei piedi da un nuovo fidanzato; mentre Jeff, che ha segretamente affittato la casa di fianco a quella da cui è stato espulso, osserva dalla finestra e in un moto di rabbia muta divelle il rubinetto del lavandino come se fosse una carota dalla terra. L’aura di minaccia, di imprevedibilità, fisica e mentale, che serpeggia in ogni interpretazione di Carrey è sempre stata una delle ragioni della sua grandezza. Oggi, dopo anni di quasi assenza totale dallo schermo, non ha nemmeno più bisogno delle mitiche contorsioni corporee di Ace Ventura o The Mask. Quella fugacità e complessità delle emozioni, quel tormento interiore dell’identità, scorrono come una febbre sul suo volto, bello e segnatissimo.

Osservarlo fa venire i brividi, come assistere alla fragilità di un miracolo. All’inizio della prima puntata, dopo essere apparso su Conan O’Brian al fianco di Danny Trejo (il loro un abbinamento geniale) e con un ukelele parlante, Jeff decide di dedicare un episodio di Mr. Pickles’ Puppet Time alla morte. Dopo molte insistenze, il produttore del programma (Frank Langella), che è anche suo padre, glielo lascia girare. Ma poi non lo manda in onda. I bambini non vogliono sentire parlare della morte, specialmente da te, gli spiega il padre che protegge il business di famiglia: «Sei un brand fidato. Dietro a cui nessuno vede un uomo». Lacerato tra il personaggio di guru solare, generoso – per bambini e non – e il maelstrom, che si porta dentro, Jeff scompone e ricompone la sua identità come un puzzle lancinante. Le show è fatto di scene buffissime, scene devastanti e piccoli, tortuosi, istanti di sollievo, come quando Jeff fa l’amore all’ospedale, con una ragazza che sta per morire di cancro. La prima stagione di Kidding prevede dieci puntate.