Giovani, di nazionalità francese o belga, approdati al terrorismo jihadista spesso dopo essere passati attraverso gli ambienti della piccola criminalità piuttosto che quelli delle moschee radicali, transitati, anche se talvolta solo per brevi periodi, per la Siria per completare il loro addestramento all’uso delle armi da guerra o degli esplosivi.

Mentre le indagini sui sanguinosi attacchi condotti venerdi sera nel cuore di Parigi e allo Stade de France si concentrano sulla figura del ventiseienne Salah Abdeslam, ancora alla macchia dopo aver fatto perdere le proprie tracce sabato e sulla possibilità, emersa soltanto ieri, che anche un altro membro del commando si sia sottratto alla cattura, 300 perquisizioni sono state effettuate da domenica a questo scopo e per sicurezza è stato annullata la partita tra Belgio e Spagna che era in programma a Bruxelles, si va delineando il profilo degli appartenenti al gruppo che ha portato l’orrore per le strade della capitale francese.

I cinque già identificati, Samy Amimour, Omar Ismaïl Mostefaï, Bilal Hadfi, Brahim Abdeslam, colpiti a morte dalle forze dell’ordine o che si sono fatti saltare in aria, e il fuggitivo Salah Abdeslam, tutti compresi tra i 20 e i 31 anni, – altri tre, due suicidi allo stadio, uno morto durante l’assalto al Bataclan, non hanno ancora un nome -, sembrano confermare l’identikit dei terroristi “made in France” definito dal giornalista transalpino David Thomson in Les Français jihadistes (Editions des Arènes, 2014), una delle indagini più accurate condotte sull’argomento.
«Si tratta, spiega l’ex inviato nel Maghreb della rete satellitare France 24, di giovani che hanno scoperto la religione spesso solo un anno, o addirittura pochi mesi prima della loro adesione alla rete terroristica. Talvolta sono finiti a combattere in Siria dopo aver trovato dei contatti su Facebook e non passando per dei luoghi di culto ufficiali».

Laggiù, ma molti negli anni scorsi sono passati prima di tutto per la Tunisia, «i cosiddetti foreign fighters provenienti dai paesi francofoni – francesi, belgi e maghrebini combattono nelle stesse unità e rappresentano uno dei gruppi più numerosi». Allo stesso modo, secondo Thomson, la Francia sarebbe stata colpita, oltre che per il suo ruolo nella coalizione anti-Isis, anche per delle ragioni simboliche: «costoro la considerano come un nemico dell’Islam per il continuo dibattito sulla laicità e per la legge sul velo».

Il tema dei combattenti francesi nelle fila dell’Isis, oltre un migliaio secondo diverse fonti – 20 dei quali morti in azioni di guerra anche come attentatori suicidi – e dell’opera di reclutamento da parte del network jihadista è al centro del lavoro di Dounia Bouzar, un’antropologa già educatrice per minori del ministero della Giustizia che ha fondato lo scorso anno un centro specializzato nel “recupero” di questi giovani e cui ha dedicato diverse opere tra cui il recente La vie après Daech (Editions de l’Atelier), che spiega come «il reclutamento islamista avvenga ormai principalmente attraverso la rete e i social network, puntando sul tentativo di convincere il nuovo adepto che la sua vita terrena non è che una prova difficile la cui ricompensa arriverà da Dio nell’aldilà. Sotto una patina religiosa si punta in realtà a convincere le persone che anche l’azione più terribile potrà trovare una giustificazione o addirittura un riconoscimento».