«Direttive della Sharia per affrontare l’epidemia». Il termine che in questi giorni circola sulla bocca di tutti non c’è, ma il riferimento è chiaro. Anche i jihadisti cominciano a preoccuparsi della diffusione del coronavirus.

Nell’ultimo numero della newsletter al-Naba, lo Stato islamico ha fornito una serie di direttive pratiche ai propri militanti, diffuse poi anche attraverso i canali social. Il primo a notarle, fuori dai circoli militanti, è stato il ricercatore britannico Aymenn Jawad Al-Tamimi, che monitora da anni l’evoluzione dello Stato islamico e di altri gruppi jihadisti analizzandone delibere amministrative, atti ufficiali, propaganda.

E ora i messaggi sul coronavirus. Proteggersi dalle cause della malattia ed evitarle; chi è sano eviti di entrare nella terra dell’epidemia, chi è malato di uscirne; mani davanti alla bocca quando si starnutisce; pulirsi bene le mani e coprire i contenitori, etc. Le direttive sono molto pragmatiche, ma ognuna viene associata a un hadith, un detto del Profeta Maometto, così da ricondurre anche l’emergenza sanitaria all’interno di un disegno divino.

La malattia, spiegano i propagandisti dello Stato islamico, non ha vita propria, «non colpisce di per sé», ma dipende «dagli ordini e dalla capacità di Allah». E solo avendo fede in lui e cercando rifugio in lui si può guarire.

Il pragmatismo religiosamente legittimato dell’ultimo numero di al-Naba è una novità. Nelle settimane e nei giorni scorsi avevano prevalso altri atteggiamenti. Molti militanti, per esempio, hanno enfatizzato e celebrato l’aumento dei decessi in Iran, accompagnandoli con slogan anti-sciiti, consolidando la tendenza al settarismo confessionale caratteristica dello Stato islamico, che ha fatto della lotta agli sciiti un elemento identitario.

Altri, invece, avevano ripreso temi già emersi durante i periodi più duri dell’offensiva militare per smantellare le roccaforti territoriali del gruppo in Siria e Iraq. In quel periodo, morti, feriti e sofferenze erano state presentate come una prova di Allah per distinguere i puri dagli impuri, chi credeva davvero nel grande progetto del Califfato e chi invece non era sincero o pronto alla battaglia. Una cornice narrativa recuperata e adattata anche alla nuova emergenza, il coronavirus.

Un virus che è anche una punizione di Dio. Così almeno lo presenta uno dei portavoce del Partito islamico del Turkestan, un’organizzazione armata formata soprattutto da uiguri, i membri della minoranza islamica della provincia cinese del Xinjiang (per qualcuno, Turkestan orientale).

Il video, ha ricordato il ricercatore Caleb Weiss, risale al mese scorso, nei giorni in cui l’attenzione mediatica era centrata sulla Cina, e presenta il coronavirus come «la punizione di Dio» per l’oppressione statale contro la minoramza uigura.

«Loro hanno distrutto le moschee, trasformandole in luoghi di danza, vizio e sfrontatezza, hanno bruciato il Corano, disonorato e stuprato le donne».«La rivincita di Dio è arrivata contro questi criminali, a cui Dio ha inviato il coronavirus mortale». Il video si chiude con una preghiera: che «questa epidemia distrugga lo Stato ateista cinese».

Che siano gli atei e gli infedeli, dunque, a preoccuparsi, non i veri musulmani. Loro, non hanno nulla da temere dal coronavirus. I nemici sono altri: «Gli ebrei sono più pericolosi del coronavirus, dell’Aids e del colera», ha dichiarato durante un sermone on-line l’imam giordano Ahmad Al-Shahrouri. A salvare i militanti barbuti sarà la loro stessa battaglia: «Il jihad purifica i nostri corpi e le nostre anime. Solo il jihad può salvarci da queste malattie».