I James Bond britannici sono nella bufera. E non poteva che accadere dopo aver svelato l’identità di Jihadi John, londinese già noto all’MI5. Tanto noto che più volte gli 007 inglesi lo hanno convocato, interrogato e tentato di reclutare prima della partenza per la Siria, nel 2012.

Ieri il premier Cameron è sceso in pista per difendere i suoi servizi segreti, accusati dalla stampa di non aver compreso la potenziale pericolosità di Mohammed Emwazi, il boia dello Stato Islamico. «Faremo tutto quello che possiamo insieme alla polizia, ai servizi segreti, per trovare queste persone e toglierle dal campo di battaglia – ha detto Cameron – Lavoro a stretto contatto con la nostra intelligence, la incontro regolarmente, chiedo cosa fanno».

Già, cosa fanno, si chiede il Regno Unito? Una domanda sorta dopo le dichiarazioni di Asim Qureshi, direttore di Cage, organizzazione per i diritti umani, che conobbe Emwazi nel 2009. A Qureshi il futuro jihadista raccontò di avere i servizi alle calcagna, tanto vicini da impedirgli di vivere la sua vita. Eppure, dopo averlo bloccato quando in progetto aveva di tornare a vivere in Kuwait (dove era nato), nel 2012 non si mossero al momento del trasferimento in Siria, all’epoca già in guerra civile.

L’MI5 non commenta. Dietro le quinte, però, funzionari difendono il proprio operato: impossibile controllare tutti i potenziali sospetti, soprattutto se i soggetti in questione non combinano niente per uno o due anni. Molli la presa e ti getti su un altro. Nel frattempo, giovani come Emwazi hanno optato per la via del radicalismo islamico in risposta, secondo l’associazione Cage, alle vessazioni subite in precedenza. Dichiarazioni che hanno attirato contro l’organizzazione le ire del sindaco di Londra, Boris Johnson, che ha accusato Qureshi di «apologia del terrorismo».

E mentre l’Europa dibatte sugli islamisti di casa propria, tra Siria e Iraq lo Stato Islamico prosegue con le barbarie, compiute ora non solo contro la popolazione, ma anche contro i simboli della civilizzazione mediorientale. L’Iraq, culla della cultura mesopotamica e mediterranea, è stato deturpato: in pochi giorni a Mosul il califfato ha dato alle fiamme 100mila libri, manoscritti antichi, mappe, conservati nella biblioteca della città. Una perdita incalcolabile a cui è seguita due giorni fa la distruzione a colpi di martello e trapano di antiche statue assire risalenti al VII secolo a.C.

Se prima il califfo era solito commerciare illegalmente i tesori iracheni per ingrassare le proprie casse, oggi calpesta la storia, sbriciola l’arte, per inviare ancora una volta il suo messaggio identitario che il califfo, schiaffeggiato dalle vittorie della resistenza kurda, ha oggi bisogno di rafforzare: ieri le Ypg hanno segnato un altro punto, con la presa del villaggio di Tel Hames, strategico passaggio verso il confine con l’Iraq. La comunità si trova nella parte est della provincia di Hasaka, in questi giorni violata dall’avanzata dell’Isis, che ha rapito 350 assiri cristiani e ha costretto alla fuga oltre mille famiglie. Secondo quanto riportato dall’associazione cristiana Aid to the Church in Need, gli islamisti avrebbero già ucciso 15 assiri cristiani, parte di loro morti mentre difendevano i villaggi.

Nelle 35 comunità assire della zona non c’è più nessuno. Un dramma senza precedenti per una minoranza che, come le altre target dell’Isis, in passato viveva una vita decisamente migliore. Sotto i governi di Saddam in Iraq e Assad in Siria, nonostante i programmi di arabizzazione, le minoranze etniche e religiose godevano di maggiore protezione: «Tra Saddam e le minoranze c’era una sorta di contratto sociale – spiegava poco tempo fa Adeed Dawisha, dell’università di Miami – I cristiani prosperavano economicamente e una parte entrò nell’élite politica».

E in Siria, terra di fedi e etnie diverse, gli Assad garantivano protezione e libertà di religione, purché non si mettesse in discussione la politica del governo. L’obiettivo, evitare che i settarismi interni fossero un pericolo per la stabilità del paese: il governo nato dal socialismo laico del partito Baath lavorò per de-islamizzare il paese, a favore del nazionalismo siriano e arabo.