La stagione delle piogge è ancora incerta in Burkina Faso. Tra una precipitazione e l’altra possono intercorrere cinque giorni. Un intervallo lungo che crea un clima pesante, per la carica d’umidità presente nell’aria. Quando entro nell’ufficio di Omar, è appena rientrato a Ouagadougou dalla sua ennesima missione nel nord del paese, gli chiedo di accendere il climatizzatore. Mi offre un caffè. Sono contento di vederlo, di conoscere gli aggiornamenti e il suo punto di vista dopo l’eccidio di Solhan: i 160 civili uccisi ai primi di giugno hanno riacceso il dibattito sulla sicurezza, già centrale nelle discussioni politiche.

OMAR È TRA QUELLI convinti della giustezza di aprire un dialogo con i terroristi; almeno con quei gruppi riconducibili a JNIM (Gruppo di Sostegno all’Islam e ai Mussulmani), molti dei quali formatisi alla katiba di Macina, in Mali, che includono “attivisti” locali del nord-Burkina; per organizzazione e obiettivi “politici”, comunque lontani da quelli di Boko-Haram, presenti nella regione seppur d’importazione.

Anche Amhed, il collega economista, è d’accordo. Sottolinea con forza, però, che sarebbe un errore seguire gli schemi suggeriti da una parte del mondo francese di Ouagadougou, che vede in queste aperture di dialogo anche la possibilità di far rientrare nel gioco politico nazionale il vecchio presidente Blaise Compaore, fuggito in Costa d’Avorio dopo gli avvenimenti del 2014.

IL RIENTRO DI COMPAORE in Burkina è stato un tema centrale anche nella campagna elettorale dello scorso novembre. Ad ora è fortemente sostenuto dai leader dell’opposizione parlamentare, in una logica non soltanto di riappacificazione nazionale ma anche di scelta obbligata per combattere il terrorismo jihadista. È ancora considerato come il solo capace di bloccare il terrorismo in Burkina Faso; la cacciata dal potere nel 2014 di colui che, nel 1987, fece assassinare Thomas Sankara, dopo esserne stato il braccio destro, è coinciso con il dilagare del fenomeno, che prima era pressoché inesistente.

 

L’ex presidente Blaise Compaore (Ap)

 

«Faceva accordi sottobanco con i predoni e i trafficanti di ogni cosa. Garantiva loro l’agibilità dei commerci e gli forniva armi – acquistate dai suoi sodali stranieri – in cambio della sicurezza delle popolazioni nelle province del nord, al confine con Mali e Niger. All’occorrenza, chiedeva aiuto anche per la liberazione degli ostaggi occidentali rapiti. C’è chi dice che il “bottino” del riscatto veniva equamente diviso. Voi italiani dovreste ricordarvi qualcosa al riguardo».

AMHED, quasi con atteggiamento di sfida, mi ricorda della cooperante italiana Rossella Urru, rapita in Algeria e rilasciata in Mali dopo 270 giorni e «… dopo mesi di trattative degli emissari di Blaise Compaore…», dietro il pagamento di un riscatto di 10 milioni di euro come scrisse il Corriere della Sera.

Anche Omar è critico sul ruolo della politica estera francese nelle dinamiche interne del paese. Non si fida, nonostante le assicurazioni date da Macron durante la visita all’Università di Ougadougou, novembre 2017, di superare la Françafrique – la vecchia politica post-coloniale francese – e di desecretare il «dossier Sankarà», che rimane ancora un nervo scoperto per molti burkinabé. Pur essendo conscio che, almeno in termini militari, la presenza francese in Burkina Faso sia meno rilevante rispetto ad altri paesi vicini, Omar auspica per il proprio paese il perseguimento di una maggiore autonomia nelle scelte politiche, soprattutto sul tema della sicurezza: «I giovani intellettuali burkinabé sono convinti di dover perseguire con forza questo obiettivo».

A BAMAKO, INVECE, questa richiesta è già arrivata anche nelle piazze. Dopo il secondo golpe militare dell’attuale presidente Assimi Goïta, maggio scorso, una parte della popolazione maliana ha chiesto a gran voce, anche davanti all’ambasciata russa, l’arrivo di nuove milizie per sostenere il paese nella lotta contro il terrorismo. Anche i mercenari della Wagner sarebbero stati accolti con favore, come nella Repubblica Centrafricana, pur di riequilibrare una presenza di militari stranieri fortemente sbilanciata a favore dei francesi. L’armée française, accolta come liberatrice nel gennaio 2013, è oggi individuata sempre più come la principale responsabile della costante instabilità politica.

 

Militari francesi nelle regioni settentrionali del Mali

 

Il mio collega Yacouba, agronomo di origine peul originario della regione di Ségou, non accetta che si parli di golpe, in riferimento agli avvenimenti del 24 maggio 2021 in Mali. Si altera se li qualifico in questo modo. «Goïta ha dovuto riconfermare in maniera decisa, perché costretto, gli accordi presi dopo il rovesciamento del Presidente I.B.Keita nell’agosto 2020. Il Presidente della fase di transizione politica, Bah Ndaw, è stato deposto perché, a più riprese, ha dimostrato di non avere autonomia di scelta ma di curare soprattutto gli interessi dei suoi amici francesi. E non è il solo.

SAPPIAMO BENE che anche il G5-Sahel non ha autonomia politica, non avendo nessuna autonomia economica. Fa le riunioni strategiche a Parigi. La missione Barkane, che è sempre stato uno strumento operativo francese, con la morte di Debry in Ciad (al potere dal 1990), ha già subito un gran colpo in termini d’efficienza militare e il maquillage in atto con la nuova missione Takouba – pur con la presenza di italiani, tedeschi, inglesi e molti altri militari europei – non riuscirà a modificare la realtà. Sarà comunque una missione militare, anche se multilaterale, controllata da una leadership francese che garantirà lo status quo. Non ci sarà pace per il Mali».

RICORDARE A YACOUBA che i jihadisti erano giunti fino a Sévaré e che senza l’intervento militare francese, nel gennaio 2013, è verosimile che sarebbero arrivati a Bamako, lo fa ancor più irrigidire. «Aiuto? Hanno mirato solamente a riconquistare il controllo del nord-Mali… soprattutto del suo sottosuolo, per essere più precisi. Volevano distruggere qualsiasi possibilità di riconoscimento dell’Azawad da parte di chiunque. Anch’io ero e sono contro l’Azawad ma l’ipotesi di due Paesi la considero comunque migliore della subordinazione supina agli interessi francesi dei governi maliani di questi anni. In questo modo nulla cambierà, come sempre».

«No, il Mali è uno e indivisibile – interviene Mohamed, il veterinario che lavora con Yacouba nella stessa ong -, Kidal, Gao, Timbuctu, Menakà, Ansongo… sono realtà maliane. Lo sono sempre state e sempre dovranno esserlo, anche se abitate prevalentemente da tuareg, peul e arabi. L’integrità territoriale maliana non ha nulla a che vedere con le problematiche del terrorismo jihadista. È un problema interno da risolvere tra maliani. Il male del paese è la presenza di militari stranieri. Non mi interessa che i russi sostituiscano i francesi. Sarebbero comunque stranieri. Macron ha minacciato di abbandonare l’assistenza al nostro esercito. Lo facesse. Ne usciremo da soli da questa situazione. Sarebbe comunque meglio delle attuali ambiguità. Non sono qui per dare una mano al nostro popolo».

SEMBRANO AVERE LE IDEE CHARE I miei amici/colleghi in Burkina Faso e Mali. La causa principale dell’attuale tragedia di una guerra guerreggiata nel Sahel, che continua a fare decine di morti soprattutto tra la popolazione civile, va ricercata principalmente negli interessi della vecchia potenza coloniale. La risoluzione passa necessariamente per un ritiro dei loro militari. Tutti convergono su questa posizione. Le divergenze sono solamente sulla tempistica e la forma.

Non so se le loro certezze potrebbero vacillare alla lettura dei giornali di questi giorni. La politica estera è concentrata sull’arrivo dei talebani a Kabul e gli effetti sulla popolazione locale, in particolare sulle fasce più deboli e non allineate con i diktat della sharia, dopo il ritiro dei militari stranieri dall’Afghanistan. Sugli stessi giornali italiani, però, c’è qualche trafiletto anche di cronaca saheliana.

TRA ARBINDA E DORI, nel nord del Burkina Faso, il 18 agosto, sono stati massacrati 47 civili e gendarmi durante un’imboscata che ha fatto 58 vittime anche tra i terroristi jihadisti. Il governo ha decretato tre giorni di lutto nazionale. Tra Nokara e Boni, nel centro del Mali, il 19 agosto, sono stati uccisi 15 soldati in un’imboscata jihadista. Una ventina di altri militari sono stati feriti e trasportati d’urgenza nell’ospedale di Sévaré. Nella Regione di Tillabery, in Niger, nella zona delle “tre frontiere” con Burkina Faso e Mali, il 16 agosto, sono stati uccisi 37 civili da gruppi jihadisti che nell’arco dell’ultimo mese hanno ucciso 98 civili e 19 gendarmi.
Non ho potuto riparlarne con Omar, Amhed, Yacouba, Mohamed, ora sono rientrato in Italia.

* direttore Tamat Ngo