Una giovane donna inglese all’ottavo mese di gravidanza sosta davanti alle cere anatomiche settecentesche nel Museo della Specola di Firenze, in contemplazione della «serena perfezione» della Venere di Clemente Susini, il celebre modello con parti scomponibili che, se sollevate, mostrano il calco di un bimbo in gestazione.
Accanto alla bellezza inquietante e immobile della figura, la donna immagina di essere lei quel modello, lo specchio di una sua perfezione immutabile infine raggiunta, senza più possibilità di errori e passi falsi. Siamo oltre la metà dell’avvincente romanzo d’esordio della britannica Jessie Greengrass, Sight (nella bellissima traduzione di Tommaso Pincio, impeccabile oltre che fluida, come se il romanzo fosse stato scritto direttamente in italiano, Bompiani, pp. 190, € 17,00), e al centro di uno dei momenti più belli di un libro che indaga sul rapporto fra madri e figlie e sull’identità della protagonista.

Laureata in filosofia, già con una certa notorietà alle spalle grazie alla raccolta dei suoi racconti usciti nel 2015, Greengrass arriva, con altrettanto successo, alla forma lunga riassunta nel titolo Sight, termine inglese per «vista», opportunamente rimasto uguale in italiano, che richiama un’altra ricorrenza dell’originale, quella di insight.
Se la vista è insieme il principio agente e l’esito dell’azione del vedere da una prospettiva reale, l’intuizione è il passaggio attraverso il quale l’autrice procede a conoscersi, ricorrendo a una narrazione non lineare, avanti e indietro nel tempo, in un fluire dinamico di pensieri.

La scommessa ‘strutturale’ del libro poggia tuttavia sulla intersecazione del flusso di coscienza della narratrice con una serie di mini-saggi, quasi biografie brevi su figure storiche di scienziati che interrompono l’afflato emotivo dei ricordi e offrono alla donna il background su cui innestare ciò che tiene insieme, in fondo, i vari frammenti: l’ossessiva ricerca di trasparenza oltre la superficie dura del reale affinché le «strutture nascoste» della sua forma possano rivelarsi.

Già nella seconda pagina, compaiono i fratelli Lumière all’epoca della loro prima proiezione: era il dicembre del 1895 e in quello stesso anno il fisico tedesco Wilhelm Röntgen rendeva pubblica la sua scoperta dei raggi X che avrebbero avviato alla trasparenza ciò che era solido. «Se fossi riuscita a capire l’integrarsi di questi due eventi, la simultaneità che li univa», dice la narratrice, «avrei forse anche scorto, grazie alla loro lente, l’ossatura della mia vita, il suo principio di fondo».
Il suo desiderio di conoscenza si contrappone alla prospettiva di altre figure femminili: Bertha, la moglie di Röntgen, per esempio, che nel vedere lo scheletro della sua mano sotto una lastra fotografica rifiuta di entrare nel mondo scoperto dal marito, perché per lei quell’immagine porta con sé «l’odore gelido e terroso delle tombe». E la madre, una figura sconosciuta e desiderata nelle toccanti pagine in cui la figlia ne racconta la malattia e il trauma della morte che l’aveva trascinata, ventenne, nell’irreversibile immobilità degli oggetti materni «che inscenavano un cordoglio in cui non la benvenuta». In scena anche la straordinaria figura della nonna materna, la Dottoressa K, psicoanalista freudiana forse ispirata a Melanie Klein, nella cui casa «ogni emozione era stata appianata per lasciare spazio al balsamo della ragione».
Una digressione storica si apre, a questo punto, sulla vita di Freud, sul suo rapporto con la figlia Anna e la sua aspirazione a svelare i misteri della psiche, un progetto che condivide le istanze rivelatrici di Röntgen e del chirurgo anatomista e collezionista di reperti umani John Hunter. Accompagnato dall’illustratore medico Jan van Rymsdyk, Hunter appare nell’ultima parte del romanzo mentre scortica il cadavere di una donna morta di parto, fornendo una immagine speculare alla Venere anatomica nel museo fiorentino.