Camminando per le vie costeggiate dall’oceano e dal bayou di Bois Sauvage, Mississippi, nella parte del borgo abitata dai neri, ci si imbatte in case mobili, catapecchie tirate su adoperando qualsiasi materiale offra la strada, e tutte queste minuscole abitazioni fatiscenti sono abitate da famiglie troppo numerose, affacciate a depositi di rottami e cimiteri di automobili, lungo strade sterrate percorse da macchine rigorosamente di seconda o terzo mano.

Qui, in questo insediamento che conta un migliaio di persone appena, la scrittrice afro-americana Jesmyn Ward ha ambientato i tre magnifici romanzi con i quali si è aggiudicata per due volte il National Book Award: nel 2011 Salvare le ossa, nel 2017 Canta, spirito, canta, entrambi già usciti in Italia con NNE, che pubblica ora La linea del sangue (pp.312, € 19,00), tutti tradotti in modo magistrale da Monica Pareschi che firma anche una «nota del traduttore» molto utile per mettere a fuoco lo stile dell’autrice e le evoluzioni del suo linguaggio, di passaggio in passaggio.

Modellata sulla DeLisle nella quale Jesmyn Ward è realmente cresciuta con nonni, genitori e fratelli, tredici persone in cinque stanze, Bois Sauvage concentra nel suo perimetro la miseria estrema del profondo sud americano: i giovani neri si nutrono quasi solo di junk food e crescono tuttavia sempre affamati, spesso in famiglie dissestate, tirati su dai nonni, mentre i genitori sono scomparsi o assenti.

Fra gli scrittori americani del secondo dopoguerra, probabilmente nessuno prima di Jesmyn Ward era riuscito a descrivere povertà e razzismo senza attingere a un minimo di retorica o di enfasi, senza reclamare commozione: lei li presenta come dati di fatto, elementi dell’ambiente imprescindibili tanto quanto lo sono le acque del bayou o del golfo del Messico, le foreste o le paludi del Delta del Mississippi: nelle sua pagine sono parte del paesaggio.

Storia di due gemelli
Sebbene tradotto per ultimo, When the Line Bleeds è in realtà il romanzo d’esordio di Jesmyn Ward, che apre la trilogia: pubblicato nel 2008, andrebbe letto per primo, anche se poi l’ordine non conta più di tanto, essendo tutti e tre i libri conclusi in sé. L’autrice introduce fra queste pagine non solo il mondo nel quale ambienterà anche i romanzi successivi ma tutti i temi più ricorrenti: la tensione tra la disgregazione di famiglie flagellate dalla deprivazione e la possibilità di salvarsi solo affidandosi ai vincoli affettivi della famiglia stessa e della comunità ristretta, contando sulla capacità di prendersi reciprocamente cura gli uni degli altri.

Fondamentale il ruolo dei nonni, che suppliscono all’assenza dei genitori, generazione straziata dalle privazioni e dalla droga, e che conservano una dignità inflessibile, ereditata dalla memoria della non lontana epoca del razzismo legittimato e assassino. Hanno ricordi, incisi sulla pelle prima ancora che nella mente, dei penitenziari-lager: di Parchman Farm, per esempio, già descritta in tutta la sua crudeltà nel meraviglioso blues di Bukka White del 1940 e che ritroviamo nell’ultimo romanzo della trilogia.

Solo la forza dei sentimenti che lega uomini e donne gli uni agli altri o a qualche altro essere vivente – il cane di Skeetah per esempio, personaggio centrale in Salvare le ossa – permette di resistere, e solo quando quei sentimenti inaridiscono all’esposizione della realtà tremenda in cui si è costretti a vivere, protagonisti e comprimari della trilogia si fanno vincere e salvarsi diventa impossibile.

Organizzato secondo una prospettiva stilistica ancora tradizionale, La linea del sangue permette anche di seguire i diversi passaggi in cui si articolerà lo sviluppo della scrittura nella trilogia. Qui, la storia dei due gemelli Joshua e Christopher, allevati dalla nonna, abbandonati dal padre tossico e dalla madre che avendo un buon lavoro ad Atlanta manda soldi ma non si fa vedere mai, è raccontata dal punto di vista dei due fratelli, da sempre indispensabili l’uno all’altro, nel momento in cui le loro strade si dividono, alla fine della scuola. Joshua trova un lavoro al porto, incontra una ragazza, si ammazza di fatica ma dei soldi guadagnati non prova vergogna. Chris comincia a spacciare erba, poi crack, e dunque ha in tasca più denaro del fratello, la sua vita è più facile e insieme più rischiosa, è combattuto, non può venire a patti con il disgustato di sé né se la sente di seguire le orme del fratello accettando la sua vita grama.

Jesmyn Ward si limita a mettere a fuoco la forza del legame profondo tra i due fratelli, un legame messo a rischio dalla ferocia di una vita adulta difficilissima e tuttavia non priva di possibile riscatto: non sapremo come andrà, non dall’autrice che si rifiuta a una determinazione intelleggibile della sue storie.

Fin dal suo esordio, dunque, Jesmyne Ward costruisce un romanzo potente sebbene la sua voce sia ancora in fase di rodaggio; già qui, comunque, la lingua è tanto più asciutta quanto più drammatica è la contingenza, essenziale nei dialoghi ma altrove lussureggiante, violenta, satura di metafore azzardate e spesso vertiginose, sempre capaci di rispecchiare con lucida efficacia e precisione gli stati d’animo e le tempeste interiori dei protagonisti.

Legami con la musica nera
Jesmyn Ward cerca e trova uno stile capace di coniugare e mantenere in equilibrio perfetto realismo crudo e a tempo stesso immaginifico e lirismo visionario. È capace – in Salvare le ossa – non solo di descrivere tutta la potenza devastatrice, apocalittica, dell’uragano Katrina, che spazza e rimodella Bois Sauvage come un cataclisma biblico, ma di rendere questa forza una sorta di grande paradigma della maternità declinato in tutti i suoi aspetti, dalla presa in cura di chi si ama traendone la forza per sopravvivere al lato più oscuro dell’esistenza, alla passione ossessiva della protagonista di nome Esch, che ancora quasi bambina si ritrova incinta, e coltiva il mito di Medea.

Anche nel seguente Canta, spirito, canta, la storia di un ragazzo nero alle prese con una situazione famigliare disperata e con l’agonia della nonna conosce squarci di una visionarietà che sconfina a tratti nell’allucinazione, rendendo trasparenti la lezione di Faulkner e in particolare del suo Mentre morivo, e facendosi allegoria dell’intera tragedia storica dei neri nel Sud degli Stati Uniti.

Come in tutti i giganti della narrativa afro-americana, da Ralph Ellison a James Baldwin a Toni Morrison, anche nelle pagine di Jesmyn Ward il legame con la musica nera è fortissimo e dichiarato; ma forse nessuno prima di questa scrittrice era riuscito a trasferire sulla pagina con altrettanta maestria l’essenza del blues, musica che nasce dal dolore e lo trasforma in energia, speranza e a volte, valendosi della forza catartica della musica, in gioia, e che qui intona il linguaggio a una sua speciale unicità.