«This World is not Conclusion/ A Species stands beyond – / Invisible, as Music – / But positive, as Sound –». L’incipit di questa celebre poesia di Emily Dickinson (Questo mondo non è conclusione./ C’è una specie al di là –/invisibile, come la musica –/ ma forte, come il suono –/) non sfigurerebbe accanto alle tre epigrafi poste da Jesmyn Ward in esergo al suo ultimo romanzo, Canta, spirito, canta, ora magnificamente tradotto da Monica Pareschi per NN editore (pp. 272, € 18,00). Se le citazioni dal folklore di lingua kwa, da Eudora Welty e da Derek Walcott collocano immediatamente il testo in uno spazio-tempo preciso, che si estende dall’Africa al Sud degli Stati Uniti, i versi di Dickinson ne evocherebbero la dimensione altra, spettrale, che coesiste e dialoga con quella materiale.

Lo spirito al quale accenna il titolo – il cui legame con un non consumato rito di sepoltura si perde purtroppo nella traduzione – è in realtà più di uno, e anche se solo alcuni sono in grado di vedere questa «specie», la loro presenza ha l’assertività di un suono, certo «invisibile» eppure reale, concreto. Ma mentre nella sua poesia Dickinson procede a smontare la certezza nell’aldilà proclamata nel primo verso, Ward non solo crede nei suoi fantasmi, ma li fa parlare e interagire con i vivi. Gli spiriti del romanzo non sono, tuttavia, improbabili ectoplasmi, bensì creature fatte di Storia e di storie, e lungi dall’essere messaggeri di salvezza, sono loro a implorare di venire salvati («A casa, dicono, a casa») da chi ha ancora carne e sangue.

Da Faulkner a Morrison Le storie che si intrecciano nel romanzo sono affidate a tre narratori neri: il tredicenne JoJo – che come Kayla, la sorellina di tre anni, non solo vede e parla con gli spiriti, ma dialoga con il mondo degli animali; sua madre Leonie, una donna lacerata dall’incapacità di essere madre, dalla droga, dalla passione per il compagno bianco Michael, e dal ricordo di Given, il fratello ucciso brutalmente in gioventù, che a volte le appare; e infine Richie, spirito di un ragazzo della stessa età di JoJo che suo nonno Riv, da giovane, aveva conosciuto nella prigione a cielo aperto di Parchman, la stessa struttura penitenziaria dalla quale sta per essere rilasciato Michael quando il romanzo ha inizio.

Buona parte dell’azione è incardinata sulla road story che conduce Jojo, Kayla e Leonie, accompagnata dall’amica Misty (una donna bianca, anche lei tossicodipendente), sino al carcere di Parchman. Devono recuperare Michael e portarlo «a casa», anche se in realtà una casa questa famiglia interrazziale non ce l’ha. I genitori di Michael detestano i neri e il padre in particolare è violento e becero.
Se già il primo romanzo della «Trilogia di Bois Sauvage» (Salvare le ossa, pubblicato lo scorso anno da NN) era stato iscritto dalla critica nella tradizione del Southern Gothic, anche in questo secondo volume della saga alcuni echi letterari sono distintamente percepibili. Anzitutto, quello della Toni Morrison di Beloved. Come la vicenda del fantasma di Amatissima, anche la storia di Richie è una di quelle che non si devono dimenticare, sebbene rimetterne assieme i pezzi sia fonte di dolore (ma le somiglianze non terminano qui).
Poi, naturalmente, c’è l’esempio del William Faulkner di Quando morivo, al cui lirismo Jesmyn Ward ha dichiarato in più occasioni di alimentarsi, pur pensando che l’autore americano «non rende giustizia ai suoi personaggi neri… Non concede loro la stessa umanità e le qualità complesse che invece infonde nei suoi personaggi bianchi».

Di contro, Ward si impegna a scavare nella psiche delle sue voci narranti, sforzandosi di dare loro un linguaggio che li distingua l’uno dall’altro (impresa ardua e talvolta non perfettamente riuscita). Come scrive la traduttrice in una concisa ma densa nota finale, «il lavoro della memoria passa … lungo voci distinte e apparentemente discordanti, calate nel presente e riecheggianti di catene e di morte, così indicibile che per attingervi occorre interrogare gli spiriti, liberarne il canto».

Premiato nel 2017 con un National Book Award, già assegnato nel 2011 a Salvare le ossa – ciò che fa di Jasmine Ward la prima scrittrice a vincere due volte questo importante riconoscimento – Canta, spirito, canta riesce nel miracolo di tenere in equilibrio realtà e mito, con una destrezza che ricorda quel testo chiave della letteratura indiano-americana che è Cerimonia di Leslie Silko. La comunità nera dell’immaginaria ma concretissima Bois Sauvage, al pari di quella Pueblo di Silko, è schiacciata dal peso di un’oppressione secolare, in questo caso perfettamente incarnata nella «fattoria» di Parchman, dove pare che la schiavitù abbia solo assunto nuove forme e dove il nero è ancora per i bianchi homo sacer, «nuda vita» passibile di venire uccisa né più né meno come quella di un animale.

E se gli spiriti e i mystères del voo doo di Ma sono una base mitica più fragile delle storie ancestrali cui si affida Leslie Silko, analogo è il senso di un mondo dove «il tempo è un immenso oceano» in cui «tutto accade contemporaneamente», e condivisa è l’aspirazione a una casa, parola con cui si chiude il romanzo e che è sussurrata a Kayla dagli spiriti di tutti i morti non sepolti, vittime di un odio razziale che pare non conoscere fine.

Al tempo dell’uragano
Ward, tuttavia, non intende limitarsi a ricordare la violenza quotidiana che investe, in questa zona del mondo, chi è nato nero. I suoi personaggi hanno sentimenti di una intensità e una forza eguale e contraria a quella della società e degli elementi (siamo nel Sud post-uragano Katrina, alla cui furia è dedicato il primo volume della trilogia) che li tormentano. Nessuna riconciliazione finale, ma una scintilla di speranza analoga a quanto emerge dal sorriso degli spettri: «qualcosa che assomiglia al sollievo, qualcosa che assomiglia al ricordo, qualcosa che assomiglia alla quiete».