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Jerry Schatzberg, uno spaventapasseri a New York

Jerry Schatzberg, uno spaventapasseri a New YorkJerry Schatzberg – foto Fabrizio Rostelli

Speciale interviste Scene di lavorazione di un documentario sull'inarrestabile novantenne, l'autore di Panico a Needle Park che fece esordire Al Pacino, ora pronto al lancio del libro delel sue fotografie a Bob Dylan

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 29 dicembre 2018

Questo è un breve racconto, consapevolmente parziale e incompleto, della settimana trascorsa con Jerry Schatzberg, uno dei registi e fotografi più creativi del ‘900. Non scriverò di quando Schatzberg vide per la prima volta, in un teatro di New York, uno sconosciuto Al Pacino nello spettacolo “Indian Wants The Bronx”, né di quando lo diresse nel suo primo ruolo da protagonista nel film “Panico a Needle Park” (1971), dove interpretò magistralmente uno sbandato eroinomane. Non parlerò della Palma d’oro vinta a Cannes nel 1973 con il film “Scarecrow – Lo spaventapasseri” (con la coppia di hoboes Pacino – Hackman), né di quando chiamò a suonare nel suo locale di New York un certo Jimmy James che poi diventò noto al grande pubblico con il nome di Jimi Hendrix. Non citerò tutte le personalità immortalate dai suoi obiettivi, non racconterò dell’amicizia con Bob Dylan ed i Rolling Stones, né della relazione con Faye Dunaway, protagonista del suo primo film semi-autobiografico “Puzzle of a Downfall Child” (Mannequin – Frammenti di una donna 1970). La narrazione non seguirà necessariamente un ordine cronologico ma si poserà, con uno sguardo fugace e mai panoramico, sui momenti e sugli impulsi più intensi di questo incontro.

Premessa: estate 2018; sono a New York per incontrare Schatzberg a distanza di circa un anno dalla precedente intervista. L’obiettivo del viaggio è realizzare un documentario indipendente, con l’aiuto del regista Fabio Caramaschi, sulla straordinaria carriera di questo fotografo e regista newyorkese classe 1927.

Scena 1. New York, interno giorno. Appartamento di Jerry Schatzberg.

Io e Schatzberg siamo seduti sul divano nero del salone, l’anziano fotografo mi mostra in anteprima il suo ultimo lavoro: “Questa è arrivata ieri, è la bozza del mio libro fotografico su Bob Dylan. Un piacere che va avanti da molto tempo. Uscirà in quattro lingue: inglese, francese, italiano e tedesco”. Schatzberg mi porge il libro non ancora rilegato; lo sfogliamo insieme sul tavolino mentre commenta alcuni scatti. “Questa è la mia idea di Bob Dylan, non me lo immaginavo in un ufficio da qualche parte”, mi spiega mostrandomi una serie di foto del musicista seduto su uno sgabello rosso e con un telefono in mano. “Questa è una foto scattata durante un suo concerto, un’immagine molto simbolica”. La foto in bianco e nero ritrae Dylan di spalle sul palco. “Questa invece è la serie di scatti che ho realizzato per la copertina di Blonde on Blonde nel 1966. Credo sia una delle più belle cover che abbia mai fatto. Stavo lavorando in interno – nel mio studio perché in quel modo potevo tenere in pugno la situazione – poiché pensavo di fare un ritratto, ma non ero soddisfatto del risultato e allora gli chiesi se voleva uscire in strada. C’era un quartiere che mi piaceva, in passato ci andavo con i miei genitori. Si chiama Meatpacking district, è la zona dove macellavano gli animali; quando ero bambino mi interessava vedere cosa accadeva in strada. Guidammo fin là, faceva freddo e non ce lo aspettavamo, indossavamo entrambi delle giacche leggere. Probabilmente tremavamo e mentre scattai la foto mossi la macchina. Questo è il motivo per cui l’immagine è mossa. Quando Dylan vide le foto ne scelse una per la copertina dell’album. Se la decisione fosse stata della Columbia non avrebbe mai scelto una di quelle foto ma Dylan aveva abbastanza influenza per ottenere ciò che voleva. Scelse tutte le foto che scattai e le inserì nell’album, incluso un mio autoritratto”. Prima di salutarlo, come promesso nel precedente incontro, gli regalo una copia di “Amore tossico” di Claudio Caligari perché, gli spiego, “ho trovato molte similitudini con l’umanità raccontata nel tuo Panic in Needle Park. Credo ti piacerà”. Mi ringrazia.

Scena 2. Interno giorno. Appartamento Schatzberg, prima giornata di riprese.

Schatzberg ci permette di allestire il set dell’intervista all’interno del suo salotto, suggerendoci delle buone inquadrature. Un regista rimane pur sempre un regista. Dopo il primo blocco di domande, Caramaschi ed io decidiamo di fare una breve pausa per discutere su come procedere. “Andate a pranzo?” ci chiede Schatzberg. “Vengo anch’io, c’è una buona pizzeria qui vicino” afferma lasciandoci interdetti e infrangendo tutte le barriere che un personaggio di questo calibro imporrebbe. Ci stiamo abituando alla sua ironia e crediamo sia una battuta ma quando prende le chiavi di casa e ci apre la porta capiamo che fa sul serio.

Scena 3. Esterno giorno, in strada (stesso giorno).

Scendiamo in strada. Mentre mi domando se stiamo realmente andando a mangiare una slice di pizza con Jerry Schatzberg, lo osservo da dietro camminare sul marciapiede. Giacca di jeans, sneakers, passo dinoccolato, sguardo sulle persone. Sa che lo stiamo riprendendo ma non fa caso a noi. Il semaforo sta per diventare rosso ma lui scatta e attraversa ugualmente. Una folgorazione. Penso a Lion, il protagonista de “Lo spaventapasseri”; non c’è dubbio: lui è il nostro scarecrow. Mentre passeggiamo Schatzberg mi spiega: “Il libro uscirà ad ottobre e poi lo andremo a presentare a Lione all’interno di una rassegna cinematografica. Allestirò anche una piccola esposizione con delle foto di Dylan; proprio in questi giorni sto lavorando alla scelta delle immagini da portare in Francia”. Schatzberg ci autorizza a seguire e filmare in presa diretta il suo lavoro durante la giornata. Non siamo al cospetto di un vecchio che si compiace nel raccontare gli aneddoti della sua incredibile vita, abbiamo di fronte un artista maturo che trae vitalità dal suo stesso lavoro. È un delitto far rimanere a casa quest’uomo di 91 anni ancora così pieno di energia e di progetti: questo più o meno è il pensiero che travolge me e Caramaschi e che ci convince a cambiare radicalmente i nostri piani e la premessa del nostro progetto. Prima di rientrare in casa Schatzberg mi chiede di scattargli una foto sotto un cartello con scritto “for rent” (in affitto ndr), si mette in posa e poi scherziamo sul fatto che lui ci ha offerto la sua disponibilità per il solo piacere di farlo. In ogni caso questa responsabilità pesa su di noi come un macigno.

Scena 4. Interno giorno. Appartamento Schatzberg.

La mattina troviamo il fotografo nel suo studio di posa mentre srotola sul pavimento delle stampe di Dylan per controllare se possono essere utilizzate per la mostra. Scruta meticolosamente la stampa: “Questa può andare” sostiene rivolgendosi alla giovane assistente. Schatzberg in ginocchio svela un po’ alla volta, come in una mano di poker, le altre stampe. Si intravede un primo piano di Dylan mentre si copre lo sguardo con la mano. “Questa è una delle mie preferite”. Poi estrae una stampa composta da diversi ritratti di Dylan in bianco e nero, in pose diverse. È la stessa foto incorniciata nel corridoio. “Anche questa va bene, ora andiamo a vedere in archivio cosa è rimasto [..] Tutti conoscono le mie foto ma in pochi sanno che le ho scattate io”: questa frase continua a risuonare nella mia mente.

Scena 5. Interno giorno. Archivio Schatzberg (stesso giorno).

Dopo una breve passeggiata raggiungiamo l’archivio del fotografo, entriamo in un ascensore che ricorda un vecchio montacarichi e ci ritroviamo in un dedalo di corridoi deserto. Le pareti sono cosparse di pesanti porte verdi in metallo, chiuse con dei lucchetti. Schatzberg ci fa strada, entriamo nel suo storage: una piccola stanza piena di scatole e stampe imballate con delle targhette: Jimi Hendrix, Fidel Castro, Rolling Stones, Al Pacino, Frank Zappa…

Dylan deve essere lì dietro” spiega Schatzberg all’assistente. “Prendi la serie dal 1965 al 1967”. Io e Caramaschi lo aiutiamo a cercare, spostando cornici e imballaggi, continuando a riprendere e tenendo sotto controllo la nostra curiosità. La tentazione di chiedergli di aprire gli imballi e mostrarci almeno una di quelle serie fotografiche è forte.

Scena 6. Interno giorno. Appartamento Schatzberg.

Come ogni mattina troviamo Schatzberg al lavoro, il fotografo è nel suo studio e sta visionando dei vecchi negativi di Dylan. Il ciak originale di Scarecrow appeso al muro. Riprendiamo il filo dell’intervista iniziata nei giorni precedenti: i racconti spaziano dalla fotografia, al cinema, alla musica fino ad arrivare con più intensità alla famiglia. Parliamo del suo passaggio dalla fotografia al cinema. “Ho iniziato a fare cinema per raccontare una sola storia”, ci spiega, “quella di una mia amica che lavorava come modella. Era sulle copertine di tutte le riviste e poi da un momento all’altro è stata estromessa dal quel mondo perché considerata troppo vecchia. L’hanno abbandonata e ha sofferto molto per questo”. La modella in questione è Anne Sainte-Marie. Schatzberg ci porta nel suo studio e ci mostra del materiale inedito presente nel suo archivio: vecchi filmati, girati nei night club di New York negli anni ‘50, di persone che ballano; i suoi primi esperimenti dietro la macchina da presa. Mi racconta inoltre che ha ancora la registrazione originale dell’intervista che fece ad Anne St. Marie e che poi utilizzò per costruire la sceneggiatura di Puzzle con Carol Eastman. Colgo l’occasione per ascoltarla: la voce di St. Marie e di Dunaway, che interpreta la protagonista di Puzzle, si assomigliano incredibilmente: il modo di parlare, l’intonazione, addirittura le pause sembrano le stesse. “Non riuscirei proprio ad immaginare quel film senza Faye Dunaway”, commento banalmente. “Neanche io” risponde il regista sorridendo.

Scena 7. Esterno giorno. Central Park (stesso giorno).

Nel pomeriggio chiediamo a Schatzberg se vuole fare una passeggiata a Central Park e lui accetta di buon grado: “Questo è il mio parco, non c’è angolo di questo posto che non abbia fotografato. Nonostante abbia realizzato molte foto di moda ho sempre amato la street photography e sono stato uno dei primi a portare le modelle in strada e nei luoghi pubblici della città”. Più tardi, a casa, ci mostrerà una serie di foto di moda scattate al mercato del pesce. Il regista è seduto su una panchina ed osserva la gente. Passa inosservato come un qualsiasi vecchio che scatta fotografie con il suo cellulare alle tartarughe nel laghetto. “Cosa ne pensi delle foto scattate con il telefono?” gli domandiamo. “Credo che comunque questa sia una mia foto, non importa quale strumento abbia utilizzato”. In seguito ci spiega di non aver mai dato troppa importanza alla tecnica ma di aver sempre seguito “la mente e il sentimento” nel suo lavoro come fotografo.

Scena 8. Esterno giorno. Pier 45.

Schatzberg rimane sorpreso dal fatto che abbiamo trovato il luogo esatto in cui scattò la foto di Blonde on Blonde, non è stato più lì da allora. Imbraccia la sua macchina fotografica e decide di seguirci per vedere come è cambiata la zona. Arriviamo in taxi all’altezza del Pier 45, durante il tragitto ci racconta l’evoluzione dell’architettura di New York negli ultimi decenni. Arrivati sul posto, mentre le auto sfrecciano sulla West highway, gli mostro una vecchia foto e la confrontiamo con lo skyline attuale; i serbatoi d’acqua sul tetto di un paio di edifici ci permettono di individuare esattamente il civico della cover. Schatzberg si avvicina e scatta di nuovo la fotografia, a distanza di circa mezzo secolo. Osserviamo in silenzio i suoi gesti, come se fosse un rituale. Poi ci incamminiamo sul Pier e ci prendiamo un gelato in attesa che il sole tramonti sul New Jersey.

Scena 9. Interno giorno. Appartamento Schatzberg.

Aretha Franklin è morta, le prime pagine di tutti i quotidiani sono dedicate a lei. Squilla il telefono, qualcuno chiede delle foto della cantante. Schatzberg dà istruzioni all’assistente e poi ci mostra dei vinili di Franklin: “Queste copertine le ho fatte io. In realtà ho scattato delle foto migliori ma non so perché abbiano scelto queste. Quando penso a tutte le personalità che ho potuto fotografare mi sento fortunato. Mi ricordo quando fotografai Aretha, eravamo soli nel mio studio. Ad un certo punto iniziò a cantare, solo per me. Mi sentii Dio in quel momento”.

Scena 10. Esterno giorno. Needle Park.

Needle Park, il “parco della siringa”, era il nome con il quale negli anni ’60 e ’70 i newyorkesi chiamavano Sherman Square, un piccolo parco pubblico nell’Upper West Side. La zona, come molte altre di Manhattan, era frequentata da eroinomani e tossicodipendenti ed è proprio intorno a quest’area che si sviluppa la storia di Panic in Needle Park, il secondo film di Schatzberg come regista e il primo di Pacino come attore protagonista. Il parchetto è ancora lì, all’incrocio tra la Broadway e Amsterdam Avenue, ma nessuno ci fa caso, il quartiere e la città sono irriconoscibili. Needle Park non è la tappa finale ma un crocevia importante, l’unico punto fisso che avevo prima di intraprendere questo viaggio era portare Schatzberg lì. Il regista accetta con la solita disponibilità. Arrivati al parco si siede su una panchina e, come in un flusso di coscienza, inizia a raccontare episodi della sua vita, aneddoti, scene del film. “Al e Kitty (Winn ndr) sono stati straordinari, non mi hanno mai deluso; gli altri personaggi erano dei veri tossicodipendenti. Prima di girare il film ci siamo documentati molto, con Al abbiamo anche frequentato in incognito degli incontri per drogati. Per la scena iniziale dove si vede la piazza dall’alto siamo saliti su quel palazzo che era in costruzione [..] Panic è un film molto duro e non dà tregua al pubblico. Qualche critico pensava fosse fantastico altri non sono riusciti a guardarlo”. Continuiamo a dialogare senza un vero filo conduttore, ogni tanto provo a riportare la discussione sulle tracce preparate per l’intervista ma il discorso devia sul presente e mi lascio trasportare. “Penso che Trump sia un disastro” osserva Schatzberg “molti continuano a dire diamogli un po’ di tempo e forse cambierà ma non è cambiato e ci sta portando indietro nel tempo. Abbiamo avuto la schiavitù e l’abbiamo superata, anche se non del tutto perché c’è ancora molto razzismo ma si può dire che è superata perché ora è illegale. Abbiamo avuto la guerra civile e l’abbiamo superata, abbiamo avuto il maccartismo e l’abbiamo superato, abbiamo avuto Nixon e l’abbiamo superato, ora avremo lui per un po’ ma il mondo ora è così fragile”. Trascorrono anche diversi momenti di silenzio, seduti sulle panchine osserviamo il flusso frenetico di gente, rimaniamo lì più di un’ora e per la prima volta percepisco un senso di intimità più profondo con quel vecchio regista. Prima di andare via ci tengo a fargli sapere che se non fosse stato per quel film probabilmente non ci saremmo mai conosciuti: “Panic mi ha cambiato la vita e da quando l’ho visto ho avuto il desiderio di conoscerti”. “Ecco, è questo che dovresti raccontare nel film” mi risponde con il solito sorriso.

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