La poetica di Geoff Dyer, eclettico scrittore inglese celebre per la riluttanza dei suoi lavori a lasciarsi incasellare in qualsivoglia genere letterario, si potrebbe riassumere in una frase contenuta nella sua ultima opera, Sabbie bianche: «Ciò che all’inizio è una cosa può diventare qualcos’altro senza cambiare niente». Ognuno dei lavori saggistici di Dyer parte proponendo un argomento – una critica su D. H Lawrence, un resoconto di viaggi, uno studio fotografico – e, senza abbandonare l’assunto di base, strada facendo se ne discosta, si allarga a infinite digressioni, diventa altro – meditazione idiosincratica sulle proprie ubbie, narrativizzazione di scatti famosi, auto-fiction molto autoironica.

Così, anche quando affronta argomenti lontani dagli interessi di chi legge, Dyer riesce a catturarne l’attenzione: l’importante è essere consapevoli che la «cosa» promessa dal titolo (e magari anche ribadita dal sottotitolo) diventerà altro nel corso della lettura, senza che sia radicalmente cambiato nessun altro elemento: non l’argomento di base, non lo stile della narrazione, né sia venuta meno la qualità della scrittura.

Lo stesso accade per quanto riguarda Un’altra formidabile giornata per mare (traduzione di Giovanna Granato, Einaudi Stile Libero, pp. 214, euro 18,00) che reca il sottotitolo Cronaca da una portaerei, ed è il resoconto di due settimane trascorse dall’autore nel novembre 2011 a bordo della portaerei americana USS George Bush. Primo di una serie di soggiorni di scrittori e fotoreporter in importanti istituzioni contemporanee, organizzati dall’associazione Writers in Residence, il cui scopo è sostenere la saggistica e il fotogiornalismo, il periodo trascorso da Dyer sul colosso della marina militare americana è il coronamento di un sogno infantile, passibile di trasformarsi, anche a causa della schizzinosità dell’autore, in un incubo lungo quindici giorni.
Da un lato, c’è il ricordo di un’infanzia del dopoguerra, spesa a costruire modellini Airfix e imparare le caratteristiche di tutti gli aerei da guerra americani; dall’altra, c’è quello stesso bambino che, raggiunta e superata la mezza età, scopre che realizzare il suo sogno significa dover dividere una cabina con sconosciuti, mangiare cibo impossibile, accettare che una serie di rigide norme regolino la sua giornata, dalla sveglia scandita all’altoparlante dalla voce trionfalistica del capitano (alle cui parole fa riferimento il titolo del volume) alla preghiera della sera, diffusa prima di dare la buonanotte ai cinquemila individui di stanza nella portaerei.

Senza un bar dove passare i tempi morti, senza alcolici, troppo alto per non essere sempre a rischio di battere la testa nei suoi spostamenti e troppo vecchio rispetto all’età media, Dyer vive questo viaggio con la goffaggine di un neofita spaesato e, enfatizzando la propria incongruità, e trasforma il resoconto saggistico in una commedia il cui protagonista si trova coinvolto in una situazione a lui del tutto estranea che non riesce a gestire.
«L’essenza del mio carattere sta proprio nell’incapacità di abituarmi alle cose», riflette quando l’alfiere Newell, sua scorta, gli fa osservare che si abituerà al rimbombo notturno dei jet in decollo. «Appena sento che bisogna abituarsi a una certa cosa so che non ne sarò capace; in un certo senso mi impegno a non abituarmici».

Come già in Sabbie bianche, lo schifiltoso Geoff, malgrado si autodefinisca «una striscia malaticcia di virilità senza spalle la cui unica salvezza è quella di occupare poco spazio», invade il primo piano inghiottendo lo scenario dell’enorme portaerei. Le sue interviste ai membri dell’equipaggio sono capolavori di humour involontario; l’incontro con la consulente per problemi di droga, per esempio, è impagabile. Alle sue informazioni sul «bong budellare», ovvero lo sballo procurato sniffando escrementi, Dyer replica: «Chissà i postumi … Sono tante le droghe che ti fanno sentire di merda il giorno dopo». Ma non basta: giocando con l’espressione gergale usata dalla donna per «sballare», ovvero, «Git the high», ripetuta più e più volte, Dyer crea un immaginario pezzo dance, «disponibile in vari remix, tutti culminanti a più riprese … crescendo verso l’ammonizione tipo inno venato di gospel: G…G…G…Git-the…Git-the… Git the high!».

Anche le frasi fatte, le espressioni colloquiali, per Dyer sono «cose» che diventano «altro» senza cambiare nulla. Basta ripeterle fino a ridurle a vuoto suono; esagerarle, trasformarle in ritornelli, esercizi di stile, invenzioni semantiche. Un mondo di persone che si esprimono attraverso acronimi e tecnicismi è, ovviamente, una palestra linguistica eccezionale. Così come il comandante della portaerei sollecita la curiosità della compagnia perché sappia «esattamente quale versione dell’eccellenza fosse stata realizzata e messa in atto in un particolare giorno», ripetendo ogni mattina la stessa idea con leggere varianti, così chi legge Dyer è ipnotizzato dalla sua bravura nel «permeare di una sua specificità», fosse pur e grottesca o ironica, qualsiasi situazione.

E tuttavia, Un’altra formidabile giornata per mare non è soltanto una narrazione umoristica. L’intero volume, scritto poco dopo la morte dei genitori, è percorso dall’idea dell’invecchiamento e della fine: nel confronto con il personale della portaerei, molto giovane e molto religioso, l’ateo Dyer si trova a rimettere in discussione «la vita corsa da un costante sentore di morte». Non a caso, il libro si chiude sul suo domandarsi che cosa significhi pregare. «La preghiera è un bisogno e un’abitudine che è sparita, si è atrofizzata», riflette, «a meno che non significhi qualcosa di molto semplice, come pensare alle persone, pensarle con affetto, desiderare il meglio per loro, sperare che non gli accada niente di brutto».
Tornato sulla terraferma, Geoff Dyer si sente soltanto «un espatriato scheletrico, l’avanzo di un romanzo che Graham Greene non aveva voluto scrivere» – un inglese perduto in una visione withmaniana dell’America. Non stupisce che nel 2014, pochi mesi prima dell’uscita di Un’altra formidabile giornata per mare, Dyer si sia trasferito in California, dove tuttora risiede.