Distruggi la sovrabbondanza, riduci la carne alla fame, tagliati i capelli, esponi le ossa, dimentica i morti. Al quarto piano del Blavatnik Building la coscienza è un imperativo categorico moltiplicato per dieci lungo una parete alta otto metri dove si susseguono senza interruzioni le litografie su carta colorata che portano stampate in cima le frasi scelte da Jenny Holzer per i suoi Inflammatory essays. Cento parole in venti righe da ripetere per venti volte in verticale, saggi brevi pronti a bruciare i corpi dall’interno che potrebbero essere scambiati per un algoritmo di ultima generazione mirato alla sopravvivenza in un presente difficile se non fossero già comparsi per le strade di Manhattan negli anni ’80, incollati alle pareti singolarmente e sempre in modo anonimo, in mezzo ad altre centinaia di affissioni.

A QUARANT’ANNI di distanza dalla loro ideazione, la Tate Modern di Londra ospita, fino al prossimo luglio, i lavori dell’artista statunitense considerata tra le più influenti del nostro tempo per il modo in cui ha saputo rinnovare il carattere dirompente della scrittura, annodandone i segni alla materia dei paesaggi urbani. Litografie, targhe metalliche, panchine di pietra, schermi a Led, pareti di grandi edifici pubblici – i supporti su cui le frasi di Holzer sono state inscritte, stampate, programmate, proiettate sono variati nel tempo e nello spazio, mescolando stili e linguaggi, dalla politica alla pubblicità. Se nella sua prima serie, Truisms, le evidenze sono distillate in righe singole, incisi neri su sfondi bianchi in grado di esercitare una forza magnetica per il disordine sconsiderato con cui si alternano in forma di assiomi, nei paragrafi colorati degli Inflammatory essays Holzer si affida alla regola della brevità per lasciar esplodere una sequenza di ragionamenti dai toni perentori su «cose innominabili o argomenti scottanti», come lei stessa li ha definiti, ispirandosi a letture di teoria politica, manifesti religiosi, racconti folclorici – da Emma Goldman a Mao Tse-tung. La gente deve pagare per quello che ha, per quello che ruba, smettila di aspettare, aspettare è segno di debolezza, la debolezza è schiavitù, grida quando la tua vita è in pericolo, niente è paragonabile al sentire.

AL CONFINE tra l’estatico e il fantastico c’è qualcosa che in un istante sa mandare in frantumi l’impalcatura di certezze su cui si regge il senso comune, è qui che potremmo collocare la ricerca di Holzer, che dalle certezze è partita per mescolarle, stravolgerle, lasciarle scoppiare accanto a un’ossessione, quella per i grafici, che l’ha portata negli anni a raccogliere oltre seicento rappresentazioni dei dati più diversi – dal ciclo del sonno delle capre alla struttura di una bolla di sapone. Fino a decidere di non scrivere più i testi delle sue opere e attingere direttamente ai discorsi degli altri, grandi poeti o gente comune i cui enunciati hanno girato il mondo alla velocità della luce. Le cinque stanze riservate all’artista dalla Tate riproducono questo scorrere incessante dei significati negli spazi, un orologio che nemmeno l’ordine alfabetico è riuscito ad arginare, quello delle credenze da cui derivano le nostre azioni.

Gli schermi luminosi che sovrastano porte d’ingresso, attraversano androni, lasciano scivolare le lettere dal soffitto al pavimento – come avviene nei sette Led di Blue Purple Tilt – sono lame taglienti che dispensano estratti d’esperienza e istruzioni per l’uso, rivelazioni da riservare alla giusta occorrenza, comandi di esistenza che in limiti massimi di 15mila caratteri si accumulano sul fondale di una memoria impermanente. È all’inizio dei monologhi dei superstiti siriani che i pensieri sulla morte di uomini, donne e bambini finiscono, un attimo prima delle conversazioni madre-figlio, subito dopo le verità ovvie e i credo indiscutibili che al ritmo di un’ultimora hanno abitato negli anni piazze e gallerie, intrecciandosi a colonne e monumenti a Napoli, New York, Roma, Hong Kong, Berlino, Abu Dhabi. L’impatto è assicurato per l’automa di città, inciampare nella frase brutale di un pensiero intransigente è facile. Ma se confondersi è un modo per restare onesti e pianificare il futuro è un’evasione dalla realtà, alla fine della strada c’è una rotonda che non porta da nessuna parte, ci riconsegna a noi stessi, al groviglio di voci amplificato e contorto che ci struttura le menti.

NEI LAVORI di Holzer la scrittura ha la potenza dell’ipnosi, quello che conta è la rapsodia della ragione, l’ampio spettro di visioni, il concentrato di idee ridotte a slogan che trova forza nella contraddizione. È tutta qui la predizione di un presente che non stavamo aspettando, dove la verità ha le sembianze di un diagramma e l’autorialità è costretta a cruccio marginale.
Nei giorni delle dicerie sovrapposte nessuna affermazione è nostra, siamo pronti a credere a tutto e non ci fidiamo di nessuno. L’ultima preghiera la nascondiamo sotto la lingua, è una formula laica imparata in fretta, dice proteggimi da quello che voglio, guardati le spalle, non essere arrogante con me, non essere cortese, ti toglierò il sorriso dalla faccia, tutto deve bruciare, l’incendio arriverà, sboccerà l’apocalisse.