L’architettura di Andrea Palladio, che già aveva trovato adesioni in tutta Europa, soprattutto in Inghilterra attraverso l’opera di Inigo Jones e poi l’azione divulgatrice di Lord Burlington, ebbe nell’America coloniale del diciottesimo secolo un’originale interpretazione che raggiunse il suo apice in Thomas Jefferson. L’autore della Dichiarazione d’Indipendenza (1776) e terzo presidente americano, infatti, non fu solo un politico di idee liberali ma un appassionato architetto orgoglioso di avere portato per primo nel Nord America il classicista Palladio e felice di attribuire all’architettura il suo principale «diletto» e il suo «passatempo preferito».
A lui è dedicata al Palladium Museum di Vicenza la mostra Jefferson e Palladio Come costruire un mondo nuovo, curata da Guido Beltramini e Fulvio Lenzo. È questa un’occasione per rinnovare l’attenzione su una circoscritta ma originale produzione, quale appunto l’architettura jeffersioniana, dopo le ormai lontane indagini di Fiske Kimball (1916) e James Ackerman (1964), e per comprendere, come si sono chiesti i curatori, in che cosa modo di Jefferson di guardare a Palladio sia stato diverso dagli altri.
Occorre innanzitutto anticipare che il palladianesimo, o per meglio dire il neo-palladianesimo, prima di Jefferson migrò sulla costa atlantica del Nuovo continente seguendo le stesse rotte degli schiavi. Con i traffici marittimi giungono non solo la manodopera per le piantagioni ma anche gli architetti designati a progettare le residenze dei ricchi proprietari. Ad esempio l’inglese Peter Harrison sbarca a Newport affidandosi alle sue preziose edizioni dei disegni di Jones, alle raccolte di Abraham Swan e di Robert Morris, oltre che al Palladio Londinensis di William Salmon: costruisce poi la Redwood Library e il Brick Market:, disinvolte interpretazioni di templi e palazzi palladiani. Come scrive Bruce Boucher nel bel catalogo di Officina Libraria sono i libri «i mattoni alla base di ciò che sarebbe diventato il palladianesimo nel Nord America». «Costruire con i libri» divenne prassi dello stesso Jefferson. Egli, infatti, non vide mai dal vero l’architettura di Palladio, neppure quando per cinque anni, dal 1784, fu a Parigi come ambasciatore, perché in un suo tour d’Italie mancò il Veneto visitando invece il Piemonte e la Lombardia. Soltanto l’invito nella villa del duca di Devonshire a Chiswick gli dà la possibilità di ammirare ciò che il più appassionato estimatore di Palladio, Lord Burlington, seppe costruire in un sobborgo di Londra, mentre è a Nîmes, davanti al tempio della Maison Carrée, che scopre per la prima volta l’antichità romana.
La relazione di Jefferson, quindi, con l’opera dell’architetto vicentino avviene solo attraverso lo studio dei testi: in particolare The Architecture of A. Palladio (1716) di Giacomo Leoni (1716) e il Vitruvius Britannicus di Colin Campbell ((1715), cioè le opere in-folio che per il Wittkower inaugurano il sorgere del neopalladianesimo, ma anche i volumi di Kent e Ware. Quando nel 1769 inizia la costruzione della sua residenza di campagna in Virginia la sua adesione ai precetti stilistici e tipologici palladiani è seria e convinta. Nomina la sua villa «Monticello», che è un chiaro riferimento al «monticello di ascesa facilissima» con il quale Palladio descrive il sito della Villa Rotonda, e si ispira ai Quattro libri per disporre sul retro della villa le barchesse e per definire il doppio ordine di logge dell’alzato del corpo centrale: una scelta che modifica al suo ritorno dall’Europa abbattendo il piano nobile superiore e distribuendo così le funzioni su un solo piano.
È la Rotonda, comunque, la villa palladiana prediletta da Jefferson, che «propone» ogni qualvolta gli è offerta l’occasione: nel progetto per la Residenza del Governatore a Williamsburg (1772-’73) o in quella a Richmond (1780), ma in particolare, nel 1792, nel concorso per la residenza del presidente degli Stati Uniti a Washington. Per ragioni di opportunità non partecipò alla competizione ma si prese la licenza di suggerirla con una cupola trasparente in vetro, anche se il progetto vincitore fu quello di James Hoban. «Il genio dell’architettura sembra aver versato le sue maledizioni su questa terra», scrive nelle sue Notes on the States of Virginia (1781-’83), lamentandosi che «i principi essenziali dell’arte sono sconosciuti e a malapena esiste tra noi un modello sufficientemente puro da darne un’idea». Come sostiene Beltramini, Jefferson «a progetti inediti avrebbe preferito repliche di edifici esistenti, antichi o moderni, che già godessero dell’approvazione generale». È questa la linea che lo guiderà anche in futuro poiché pragmatica, e la più funzionale non solo a rappresentare l’identità del Nuovo Mondo, ma a risolvere razionalmente le questioni dello sviluppo urbano.
Architettura, città e paesaggio naturale sono per lo statista-architetto elementi che appartengono a un unico disegno ordinatore, che si deve rispecchiare sia nell’organizzazione della società sia nella politica che governa lo stato federale. Quando all’indomani della Dichiarazione d’Indipendenza Jefferson presenta il trasferimento della capitale della Virginia da Williamsburg a Richmond, la nuova distribuzione degli edifici pubblici è da lui pensata su una maglia di sei lotti isolati secondo il principio della separazione dei poteri proprio di una repubblica democratica, come bene ha messo in evidenza Lenzo. Disegna così con estrema semplicità il centro monumentale della nuova capitale: da una parte il Campidoglio, sede con il Senato del potere legislativo e unico edificio a essere costruito su ispirazione dell’antica Maison Carrée (nel 1905 modificato con l’aggiunta di due volumi laterali), dall’altra gli uffici del potere esecutivo e poi la Hall of Justice, sede di quello giudiziario. Anche se a Richmond il programma si compie solo in minima parte, segna, però, un importante precedente che avrà un seguito a Washington. Qui Jefferson ripresenta una griglia ortogonale di isolati che il suo amico Charles Pierre l’Enfant, l’architetto ufficiale del piano della capitale, espande oltre misura stravolgendo la maglia originaria con vie in diagonale, così che Washington rimarrà «per lunghi decenni una città di strade senza case» (Lenzo). Oggi ciò che incarna la capitale jeffersoniana è l’area monumentale: il rettifilo urbano con la residenza del Presidente, il Campidoglio e il loro collegamento attraverso l’ampio percorso pedonale con la presenza del fiume Tyber.
Quando nel 1809 Jefferson si ritira dalla vita politica a Monticello non smise di occuparsi di architettura. Nel 1817 rende concreta la sua idea di fondazione di un’università in Virginia a Charlottesville convinto che se la «conoscenza è potere» è anche «salvezza e felicità». La pianta del suo Academical Village è un rettangolo aperto di prato e alberi dove su tre lati del perimetro si dispongono padiglioni a due piani con pronao e timpano collegati tra loro da edifici più bassi porticati. In perfetta simmetria sull’asse longitudinale Jefferson progetta la Rotunda, la biblioteca, copia in scala dell’«architettura sferica» del Pantheon. Solo in apparenza l’insieme è statico. Al contrario la varietas è perseguita programmaticamente: i padiglioni sono «di foggia varia – dichiara lo statista –, modelli di architettura semplice» poiché ogni progetto deve avere la possibilità di essere modificato al variare delle esigenze della vita collettiva.
A conclusione della mostra, ricca oltre che di disegni e di plastici delle fotografie di Filippo Romano che documentano lo stato attuale delle architetture jeffersoniane, sono esposti i bozzetti del Canova per la statua di Washington nelle ieratiche pose che lo scultore di Possagno ideò prima della statua finale in marmo del Presidente nei panni di un generale romano. Inaugurata nel 1821, andò distrutta da un incendio dieci anni dopo, e senza il calco conservato nella Gipsoteca Canoviana non se ne sarebbe potuta scolpire una copia (1970). La storia della statua illustra non solo il ruolo decisivo avuto da Jefferson nel commissionarla, ma la guida che più in generale egli assunse all’epoca come autorevole «intenditore» d’arte, promuovendo da politico la tradizione classica, ma innovandola in modo del tutto personale offrendo, come scrisse Ackerman, «alla nascente democrazia americana, fondata su una landa selvaggia, la speranza di rivendicare un posto tra le nazione del mondo».