L’ultimo concerto della vita di Jeff Buckley, in un momento in cui, come racconta il biografo David Browne, Jeff «aveva preso coscienza della palla di fuoco che aveva dentro», si tenne in un locale che si chiamava Barrister’s, a Memphis, Tennessee.
La terra di Elvis Presley e degli studi di registrazione dove fu concepita buona parte della popular music moderna. Era il 26 maggio 1997. Sarebbe morto tre giorni dopo, il 29, trentuno anni ancora da compiere. Tentò di arrivare alla sala in bicicletta, con la chitarra a tracolla, poi alla fine chiese un passaggio a un’amica, Tammy Shouse. Non scese subito dall’auto: la «palla di fuoco» continuava a ardere energie, e per oltre una mezz’ora Jeff stette a stilare note frenetiche sul diario, con la sua penna rossa che perdeva inchiostro e spaventava tutti con quelle sbavature che lasciava su mobili e oggetti che sembravano strisciate di sangue.
ALTRE COSE IN TESTA
Non aveva voglia di suonare, il ragazzo con la voce d’angelo avuta in sorte da un padre assente e mai conosciuto che, a sua volta, doveva discendere da qualche strana stirpe di uomini-sirena, Tim Buckley. Morto a ventotto anni nel 1975. Aveva altre cose in testa, Jeff. Senz’altro non compiacere le piccole schiere di fan che lo seguivano ovunque idolatrandolo, mentre lui voleva solo finire il suo disco nuovo con canzoni all’altezza di Grace, quell’unico lavoro in studio che lo aveva fatto esplodere come una supernova, ed era un fardello pesante. Nel locale c’erano un a sessantina di persone. Jeff, che poteva accarezzare gli angoli più nascosti del cuore sciorinando Hallelujah di Leonard Cohen con grazia perversa aveva anche momenti di furore e di eccesso, quando sentiva di essere nel posto sbagliato: e allora prendeva a martellare la chitarra con una rabbia implacabile, quasi a sfidare chi andava ad ascoltarlo per trarne una nuvola di confortante vigore autoriale: perché Jeff, oltre alle sue canzoni, conosceva centinaia di altri brani, era una sorta di enciclopedia vivente delle note d’autore, del classic rock, di tutte le band «indie» che avessero scritto qualcosa di significativo. Quella sera suonò, possiamo immaginare, come suona in un ep dal vivo ritrovato, quando affronta Kangaroo e la trasforma in una sorta di maniacale confronto tra la chitarra in battere e i colpi implacabili di una batteria che sembra seguirlo e ostacolarlo al contempo, e la canzone non finisce mai, e viene da chiedersi cosa avesse in testa lui. Senz’altro non aveva voglia di raccontare fatti personali a persone che cercavano di frugare nella sua vita.
Fu scostante ed aggressivo, poi se ne andò via, riaccompagnato da Tammy, che se lo portò a casa. Jeff si mise a guardare in tv, stranamente elettrizzato, una versione cinematografica di Tommy degli Who. Alla mattina era sempre lì, sul divano, bottiglie vuote di ginseng, lo sguardo teso di chi non riesce più a dormire. In quel maledetto maggio di vent’anni fa Jeff Buckley sembrava essere contemporaneamente due persone: il rocker dalla voce superiore che faticosamente sta cercando di toccare la perfezione con un disco tanto atteso dalla gente quanto impossibile da definire e chiudere, per lui, e una strana figura che continuamente danza sull’orlo della propria fine, quasi intuendo che i giorni dati per lui erano in scadenza.
STRANE TELEFONATE
Tant’è che due giorni dopo il concerto rabbioso al Barriter’s fece una serie di criptiche telefonate a gente che non vedeva o sentiva da tempo, per assicurarsi che tutti stessero bene e tutto fosse a posto. Almeno per gli altri, viene da dire.
Fa anche un’inquietante telefonata alla sua ex fidanzata, Rebecca Moore, e le dice: «Pensa a me e sorridi, ci vediamo dall’altra parte». Oppure erano discorsi con gli amici che assomigliavano a convulsi monologhi affastellati di idee, di progetti, di sogni, a velocità radiante, incomprensibili per tutti. E Jeff non era né imbottito di sostanze stupefacenti, né ubriaco. Non fumava neppure più. Era la sua testa che girava a velocità diverse, intermittenti. Tant’è che il 29 maggio chiamò un’altra persona, la violinista Joan Wasser, il suo vero amore (oggi attiva nel mondo dell’indie rock con il bizzarro nome di Joan As Police Woman) dicendole di aver capito che il problema era lì, nella testa: crisi maniaco-depressive seguite da picchi di entusiasmo. Una sorta di bipolarità, insomma, che aveva semplicemente bisogno di sostegno medico. È lei a ricevere una convulsa telefonata, verso le 22, da Keith Foti, un tizio che spesso lavora assieme al tour manager di Jeff Buckley, ed è a Memphis. L’uomo farfuglia qualcosa su un fiume, sul fatto che «Jeff è andato a nuotare» e poi, incalzato dalle domande, sulla stranezza di quel bagno notturno a sorpresa cava la frase terribile: «Jeff è sparito sott’acqua, non è più venuto fuori».
LE NOVE DI SERA
Jeff sarebbe dovuto andare a provare, era partito con un furgone assieme a Keith. Di botto decide di andare al fiume, il Wolf River, un affluente del Mississippi. Sono le nove di sera. Si incammina verso l’acqua, vestito, vuole andare a nuotare. Non è la prima volta che ha queste idee balzane. Indossa jeans neri, e una maglietta con la scritta Altamont, il Festival dove i truci Hell’s Angels avevano assassinato un ragazzo, a un concerto dei Rolling Stones. A un certo punto passa un vaporetto sul fiume, alza un’onda. Quando la cresta d’acqua scema, Jeff non c’è più. È sul fondo del fiume, appesantito dai vestiti, dagli stivali, e da una strana collezione di quarantatre chiavi metalliche che si porta addosso.
Nel disco che ha lasciato incompiuto, Sketches for My Sweetheart the Drunk si leggono agghiaccianti frasi premonitrici come queste: «Resta con me sotto queste onde, stanotte», «sono una bolla d’acqua che va verso un chiodo», «ah, la calma sotto quel fiume selvaggio e contaminato».
Non lo trovano subito, il Mississippi, il gran fiume del blues e del jazz vuole il suo tributo di compagnia. Lo trovarono il 4 giugno, a chilometri di distanza, nella direzione di Beale Street, la strada della musica. Sketches For my Sweetheart the Drunk venne pubblicato il 19 maggio. La palla di fuoco non fece in tempo a consumarsi, è rimasto un gigantesco, magmatico, impreciso blocco d’appunti sonoro ustionanti. Jeff, come forse il padre non conosciuto, ed amato solo tanti anni dopo, quando ne conobbe per davvero le canzoni, è ancora vivo ogni volta che emerge una scheggia, una sequenza di brani, in studio o su qualche palco.
Negli ultimi tempi, ad esempio, sono spuntati fuori So Real, nastri all’East Orange del ’92 (con una incredibile versione di All Tomorrow’s Parties dei Vevet Underground) e allo Studio Cleveland del ’95, e Dreams of the Way We Were, una trasmissione radiofonica del 1992 dove si stagliano come gemme luminose la Lost Highway di Hank Williams, un dittico di brani di Elton John (We All Fall in Love Sometimes e Curtains) che Jeff trasforma in un mantra iniziatico per sognatori, e un lacerto dylaniano da brividi, Mama, You Been on My Mind. E c’è anche lui, che risponde per nove minuti a domande varie. Con nobile distacco. Con ironia sospesa e sincera partecipazione. Risposte alla Jeff Buckley, il ragazzo con la voce di diamante che ardeva dentro una palla di fuoco, e che andò a spegnerla nelle acque limacciose del Mississippi.