Esistono forme dell’espressione in cui il reale e l’immaginario si danno come una cosa sola ed è il caso di Jean Vigo la cui fortuna postuma, perché il regista morì nel ’34 a nemmeno trent’anni, è contenuta in poche bobine, poco meno di tre ore di cinema, e in appena quattro film girati nel suo quinquennio terminale dentro un prolungato stato di grazia (l’occhio dolcemente implacabile, la mano sempre ferma pure nel moto centrifugo) che sembra alludere al furore dionisiaco e dunque a una ispirazione che non conosce tregua né, tanto meno, décalage.
Perché Vigo, questo franco-iberico autodidatta e figlio di anarchici, questo ragazzo sbandato e malato di tisi, in sostanza un apolide, è da subito l’interfaccia che lega la grammatica dei classici (con l’alter ego Boris Kaufman, fratello di Dziga Vertov, a Parigi divenuto suo mentore e direttore della fotografia) al gesto di fondazione del cinema francese, di cui A propos de Nice (1930), La natation par Jean Taris, champion de France (’31), Zéro de conduite (’33) e L’Atalante (’34) già paiono esaurire o almeno potenzialmente contenere (tra il documentario-ritratto di una città turistica, un film promozionale sul nuoto e due opere di nuda invenzione sulla rivolta adolescente e l’amour fou) l’alfa e l’omega, per l’appunto la fisica e la metafisica, le cose che si vedono in cielo e quelle posate sulla terra: basterebbero gli esempi di Jean-Luc Godard, specie nei segmenti più erratici di A bout de souffle, e soprattutto di Francois Truffaut (I 400 colpi sono un evidente omaggio e insieme una variazione musicale sul tema di Zéro) che affermerà di averlo scoperto un sabato pomeriggio del ’46 al cineclub «La chambre noir» grazie ad André Bazin, lo stesso che collocava Jean Vigo al centro della costellazione secolare tra Jean Renoir e Abel Gance, gli unici a resistere in Francia, secondo lui, davanti alla luce accecante di Charlie Chaplin il demiurgo.
E avrebbe scritto, Truffaut, di colui che era stato così a lungo maledetto e rimosso, accusato di volgarità, sciatteria e persino di pornografia: «Esteta e realista, Vigo è un regista che ha saputo evitare tutte le trappole dell’estetismo e del realismo, ha manipolato un materiale esplosivo, ad esempio Dita Parlo in abito da sposa sul barcone in mezzo alla nebbia o, in senso contrario, l’esibizione della biancheria sporca accumulata nell’armadio di Jean Dasté, e ogni volta se l’è cavata grazie alle sue peculiarità, ovvero delicatezza, humour, eleganza, intelligenza, intuizione e sensibilità». È quanto i telespettatori da decenni possono rivivere ogni notte con la sigla di Fuori orario (Rai3) che contamina il rock di Patty Smith ( nella sulfurea Because the night) con le immagini supreme dell’Atalante nella lunga sequenza insieme equorea e onirica di un inabissamento che in realtà è una risalita (cioè una redenzione dal silenzio e dalla lontananza) di due esseri, gli sposi novelli, che semplicemente si amano o provano a farlo.
Perciò è una autentica notizia l’uscita in cofanetto di Tutto Jean Vigo (2 Blu-ray, 3 DVD video+ brochure, pp. 63, Cineteca di Bologna, «Il cinema ritrovato», € 33.00) che, unitamente a materiali di repertorio e interventi d’autore (bellissima sia la testimonianza di Bernardo Bertolucci sia la lettera di Georges Simenon che è quasi un rito propiziatorio in favore di Vigo), ricolloca al presente, nello splendore di una vera e propria edizione critica, il tesoro del regista francese e in particolare il suo film eponimo, L’Atalante , di recente restaurato per Gaumont da Bernard Eisenschitz, il quale lo riscatta dalla versione un tempo massacrata dai produttori e perciò mutila, arbitrariamente rimontata e abusiva pure nel titolo (un improbabile Le chaland qui passe, versione francese della canzone interpretata da Vittorio De Sica, Parlami d’amore, Mariù) risalendo per lo stemma codicum delle copie, tra presunti apografi e soprattutto veri apocrifi, all’archetipo che finalmente corrisponde alla versione proiettata a Londra nell’autunno del 1934.
La stessa che a Bologna su grande schermo panoramico si è potuta ammirare in Piazza Maggiore nel giugno del 2017, anteprima dell’attuale Tutto Jean Vigo che include ovviamente, come fosse un baricentro della ispirazione, il suo film più insolente e tellurico, Zéro de conduite (restaurato sulla base della copia inviata nel ’47 a Luigi Comencini nientemeno che da Henri Langlois), il film dove si annuncia con mezzo secolo di anticipo un ’68 pre-pubere e ultra-libertario a proposito del quale un finissimo critico cinematografico che peraltro lavora alla Cineteca di Bologna, Roberto Chiesi, ha scritto di recente: «La fantasia anarchica di Jean Vigo investe i dogmi dell’autorità con l’umorismo e l’irriverenza della fanciullezza. Allo sguardo di un ragazzo, infatti, i riti retorici e ipocriti degli adulti non possono apparire altro che ridicoli».
In questo c’è sia il ricordo di Gavroche, il monello dei Miserabili, sia l’impronta del Ragazzo di Jules Vallès, lo scrittore comunardo (chissà se anche di Bardamu, il protagonista del Viaggio al termine della notte di Céline, uscito nell’autunno del ’32), ma in questo c è senz’altro l’annuncio di quanto sarà L’Atalante, l’epica fluviale della piccola gente, il sogno a occhi aperti nella realtà più dimessa di Jean e Juliette, la coppia di sposi in viaggio, fra turbolenze astrali e repentine riconciliazioni, su cui vigila una figura di marinaio tra lo sciamano e l’angelo caduto, Père Jules, interpretato da un incredibile Michel Simon, quasi un Calibano del ventesimo secolo o un torvo anarchico che, come fu detto, non ha nulla contro la società perché semplicemente egli la ignora.
Utile, in proposito, è la piccola guida di Jean-Max Méjean, L’Atalante di Jean Vigo (traduzione di Antonella Alessandrini, Gremese, pp. 118, € 14.00), dove si legge, a firma di Elie Faure, il giudizio forse più centrato e lapidario su quel capolavoro: «Stracci appesi. Pentole. Banchetti. Pane. Un litro. Timide luci nella semioscurità accentuata dalla nebbia del fiume. L’ombra furtiva di Rembrandt che incontra, tra mobili rugosi e divisori in legno, l’ombra sorniona di Goya. L’Atalante? La natura umana in persone umili».
Ma non solo bisognerebbe vedere tutto Jean Vigo su grande schermo. Data la relativa esiguità della sua cinematografia, bisognerebbe anche vederlo di seguito, costringendolo alla unità di tempo, luogo e azione che non è mai appartenuta a un artista tanto poco aristotelico e vocato, semmai, all’invenzione più commossa e sbrigliata. Teste chi scrive e ne curò la plaquette d’occasione, è quanto invece avvenne a Jesi, caso forse unico in Italia, nel pomeriggio del 2 aprile 1993 in una sala storica da tempo chiusa, il cinema «Diana», un po’ cadente e affumicato, le sedie di legno molto scomode e sempre cigolanti: prestate dalla Cineteca Nazionale di Roma grazie a un pioniere della cinefilia marchigiana quale Nazareno Re, allora dirigente dell’Arci, quelle quattro pellicole cadevano letteralmente a pezzi, segnate e graffiate, eppure la luce di Vigo continuava a sfolgorare mentre il continuum delle immagini pulsando da un film all’altro, senza interruzioni, restituiva il senso di una ritmica tenacemente musicale ovvero la imponenza stessa di una realtà così schietta, elementare, da non ammettere più nessuna distinzione fra dentro e fuori, mondo carnale e spirituale, umano e inumano.