È stato il più charmant, il bello dei belli. L’altro conquistatore del nostro cinema : l’‘altro’ Alain Delon. Ma, a differenza del Tancredi del Gattopardo, che s’è distillato in un aristocratico campionario de luxe, Jean Sorel è stato un diluvio: 33 film italiani – di cui 21 nei soli anni 60 –, cioè la metà dell’intera cinematografia, che conta affermazioni prestigiose sia in Francia (Belle de jour di Luis Buñuel) che oltre Atlantico (Uno sguardo dal ponte di Sidney Lumet).

Di tutti i francesi d’Italia, è l’attore più di casa, un italiano del cuore: volto familiare del cinema di Alberto Lattuada, Mauro Bolognini, Nanni Loy, Dino Risi, Carlo Lizzani… e di tanta serie B o Z, poi in parte rivalutata, da Lucio Fulci in giù. Non tutti ‘Visconti’, insomma. Ma è l’unico attore ai cui film siano andati due Leoni d’oro in tre anni – Vaghe stelle dell’Orsa di Visconti (1965) e Belle de jour di Buñuel (1967) –, meritandosi a Ischia Film Festival il premio alla carriera.

Giurato al Bif&st nel 2011, a 83 anni sempre slanciato e elegante, i capelli imbiancati ma lo sguardo vivo e diretto degli esordi, pronuncia italiana pressoché perfetta, miracolosamente senza inflessioni romane («un rigore che mi sono imposto dall’inizio: in Francia, invece, si lascia agli italiani il francese che hanno, con tolleranza sorridente, come nel caso dell’amico Mastroianni»), Sorel continua il suo viavai Francia-Italia, apparendo spesso in compagnia della moglie, Anna Maria Ferrero, agli incontri dell’Institut Culturel Italien a Parigi o calcando dal 2001 le nostre scene (Candido di Sciascia, per la regia di Walter Manfrè) o partecipando, da 30 anni, a serie, miniserie e film tv, come, di recente, Una buona stagione.Attore contro la volontà e a dispetto delle aspirazioni di casa, o meglio, di casata, Sorel, al secolo marchese Jean de Combault Roquebrune, era cresciuto nel mito del padre intellettuale e gaullista ucciso in combattimento contro i nazisti e educato a buone maniere e foie gras dalla madre : «Per il look e la buona educazione, mi vedeva già in piena carriera diplomatica, cui non pensavo per nulla». Finito il liceo, si arruola e – destino comune ai coetanei Trintignant e Delon – viene spedito nel 1956 al fronte: guerra d’Algeria.

Come nasce, Jean Sorel, la scelta dell’Italia, divenuta sua seconda patria?

Ci sono venuto subito, da sconosciuto, sulla mia cabriolet: I dolci inganni di Lattuada nel 1960 è il mio secondo film, all’indomani del debutto in Francia. All’epoca ci si sentiva immediatamente liberi nel vostro Paese. E Roma era veramente la ‘Dolce Vita’.

E la scelta di lei come protagonista di «Vaghe stelle dell’Orsa»?

Sono stato una seconda, anzi, una terza scelta. Visconti voleva Tab Hunter, rifiutato però dalla distribuzione Usa, perché palesemente gay. La Vides di Franco Cristaldi voleva Alain Delon, per ricreare a fini commerciali la coppia del Gattopardo, Delon-Cardinale. Ma Delon rifiutò per motivi economici. Anna Maria Ferrero, che avevo sposato nel ‘61, conosceva Visconti, grazie a un provino a Parigi per La dolce ala della giovinezza di Tennesse Williams, che poi non fu allestito. Ma già durante le riprese di Monsignor Cupido, episodio de Le bambole, di Mauro Bolognini mi avevano cercato la produzione e Visconti. Diedi retta a Bolognini, che mi scoraggiò, scongiurandomi di evitarlo: ‘Visconti è un personaggio insopportabile, abominevole, di una cattiveria incredibile con gli attori !’. Solo molto tempo dopo capii la sua reazione: Visconti lo chiamava Bolognetti, i due non si sopportavano.

Com’è stato l’incontro con il ‘mostro’?

Mi aveva invitato a casa sua, dove abbiam parlato per un’ora: di tutto, tranne che del film. Parlava un bel francese per i primi venti minuti, poi si stancava. Sono stato, con Anna Maria, anche alla ‘Colombaia’, la villa leggendaria a Ischia, ma non ci abbiamo mai dormito. Visconti aveva rapporti buffi con le sue mille case. Dove abbiamo girato Vaghe stelle dell’Orsa, si era comprato una bellissima villa, ma allo sfascio. Ne ha fatto restaurare subito, e soltanto, il teatro. Non ci si poteva dormire, ma si poteva assistere a qualche spettacolo. Nelle sue case splendide c’era una moltitudine d’oggetti di stili diversi. La sua grande qualità era di indovinare le mode. A me, come a lui, piacevano molto i bronzi : talvolta andavamo a Parigi a comprarne. Lui sapeva individuare il meglio al primo colpo d’occhio.

Qual era il clima del set di Vaghe stelle dell’Orsa?

Luchino aveva fama di regista irascibile. Ma l’ho visto adirarsi una volta sola. Forse ci ha aiutato la sua cotta per Helmut Berger, arrivato sul set con i Dalì. Mi aveva subito impressionato l’incredibile silenzio che regnava durante le riprese. Luchino incuteva soggezione, nessuno fiatava. Lui voleva che fossi presente anche quando non toccava a me. La prima volta, ero stato preso dal panico. Doveva girare Claudia Cardinale: salotto bellissimo, qualcuno bussa, Claudia va alla porta, apre, riceve un telegramma, si gira e cammina verso il centro della stanza leggendo un messaggio importante. A quel punto, Luchino si è inginocchiato davanti a lei, l’ha stretta alle caviglie e fatta camminare come da lui richiesto. È stato uno choc. Come si fa a lavorare così? Poi mi son ricreduto e con Luchino il clima è divenuto presto disteso.

Accanto al cinema d’autore, non ha disdegnato un’ampia poltiglia di film di genere. Nessun timore di ‘buttarsi via’?

Non dimentichiamo che sono stato spesso scartato – ride –, a esempio da Mario Bava per Diabolik. Ma è vero: dal poliziottesco (La polizia sta a guardare) all’horror (La corta notte delle bambole di vetro), al thriller (Il dolce corpo di Deborah, Una sull’altra, Una lucertola con la pelle di donna), fino a commedie leggere (Bonnie e Clyde all’italiana), non mi sono fatto mancare nulla. L’ho imparato da Mastroianni. Un giorno, a Parigi, nel bar dei nostri incontri, gli ho chiesto consiglio : devo accettare o no ? E lui : ‘Accetta, tanto il pubblico si ricorderà di te per due-tre film al massimo’. Certamente parlava di sé. Marcello mi ha regalato una piccola, fondamentale lezione: non prendersi mai sul serio. Perché questo mestiere è un gioco e, come mi diceva lui, è come scrivere sull’acqua. È l’autoironia a salvare gli attori: l’ironia di chi non si è mai preso sul serio.

È stato autoironico anche con la sua bellezza, fino a volervi rinunciare. Perché?

Finalmente è successo. Con il film, presentato alla 53ª Mostra del nuovo cinema di Pesaro, Strange Birds di Elise Girard, dove interpreto un libraio parigino, dal passato oscuro, che affonda negli anni di piombo: epoca che ho conosciuto a Roma, divenuta di colpo città allarmata, richiusa. Avrei sempre preferito ruoli dell’anti-bello, mentre i registi, da Loy a Risi, a Lizzani, mi han voluto per l’eterna parte dell’attor giovane e seduttore. Che noia. Che bello, invece, al cinema, il losco, il criminale: meglio se con la faccia gentile, che devia le indagini.

Ma una volta è stato lì lì per diventare il pericolo porno n.1 d’Italia. Ricorda?

(Risata) Era il 1965. Mia ‘complice’, Gina Lollobrigida, fisico perfetto e anche simpatica. Il film, Monsignor Cupido. Nessuna nudità, niente scene volgari, ma il film sarà vietato ai minori e, per di più, denunciato per oscenità, per un presunto nudo di Gina, in realtà in calzamaglia. Subiamo il processo Bolognini, il produttore, Gina, io. A difenderci, l’arringa d’un futuro presidente della Repubblica, allora stimato penalista, il migliore : Giovanni Leone. Ma siamo tutti condannati a tre mesi, con la condizionale. Una vicenda che ha del surreale. Ma anche questa è Italia, no?